Vade retro relativismo, atto II

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Slobodan
00lunedì 5 dicembre 2005 21:14
«Politica e relativismo ostacoli alla libertà religiosa»

Il Papa all’Angelus: una minaccia anche dal predominio culturale dell’agnosticismo

CITTÀ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI torna a battere sul chiodo dell’«agnosticismo» e del «relativismo», affermando che il loro «predominio culturale» può ostacolare «in maniera subdola» la libertà religiosa: l’ha affermato ieri all’«Angelus» davanti a una piazza come sempre affollata, in occasione del 40° anniversario dell’approvazione della dichiarazione conciliare «Dignitatis humanae». Ricordando quel documento, Ratzinger ha detto che quell’insegnamento conciliare «resta ancora di grande attualità, infatti la libertà religiosa è ben lontana dall’essere ovunque effettivamente assicurata: in alcuni casi essa è negata per motivi religiosi o ideologici; altre volte, pur riconosciuta sulla carta, viene ostacolata nei fatti dal potere politico oppure, in maniera più subdola, dal predominio culturale dell’agnosticismo e del relativismo».
Parole forti di critica radicale alla cultura dominante dei Paesi occidentali, simili ad altre già pronunciate in questi mesi dal Papa teologo e che puntualmente hanno provocato reazioni polemiche. Quelle cinque righe sono state l’unica «punta» di un discorso quasi da manuale sulla dichiarazione conciliare «Dignitatis humanae», che Papa Ratzinger ha rievocato proprio a partire da quelle due parole del titolo latino: «La libertà religiosa deriva dalla singolare dignità dell’uomo che, fra tutte le creature di questa Terra, è l’unica in grado di stabilire una relazione libera e consapevole con il suo Creatore».
Che l’attuale cultura occidentale non sia in verità «tollerante» tendendo essa a «bandire Dio dalla vita pubblica», Papa Ratzinger l’aveva già affermato il 2 ottobre, aprendo il Sinodo. Il concetto ricorre più volte negli scritti del cardinale Ratzinger, che nell’omelia da «decano» il giorno dell’inizio del Conclave aveva parlato di «dittatura del relativismo».
Che la cultura secolare possa costituire un «ostacolo» alla libertà religiosa non è una affermazione nuova per il magistero papale. Già l’aveva proposta Giovanni Paolo II, per esempio, con il discorso al corpo diplomatico dell’11 gennaio 1999. In quell’occasione, il Papa polacco, dopo aver parlato dell’«intolleranza religiosa» che veniva crescendo in varie regioni dell’Asia e dell’Africa, aveva aggiunto che «in certi Paesi dell’Europa occidentale si osserva uno sviluppo altrettanto inquietante che, sotto l’influenza di una falsa concezione del principio di separazione tra lo Stato e le Chieseo di un agnosticismo tenace, tende a confinare queste ultime nel solo ambito cultuale, accettando difficilmente una parola pubblica da parte loro».







«Ma bandire il pensiero critico significa creare uno Stato assolutista o teocratico»

«Beh, se il Papa ha detto questo, l’affermazione è sorprendente...».
Il filosofo Emanuele Severino sorride: «Al di là delle pur nobilissime intenzioni, chiaro».

Perché sorprendente?

«Proprio per la grande stima che ho del Pontefice. La libertà religiosa deve essere garantita da uno Stato democratico, e su questo non ci piove. Ma se fosse vero che l’agnosticismo e il relativismo la ostacolano, e in modo tanto più grave perché subdolo, ne verrebbe che per garantire la libertà religiosa e quindi la democrazia si dovrebbe bandire dallo Stato ogni forma di pensiero che si ponga in contrasto con il cristianesimo o con la religione in generale. Addirittura, bisognerebbe bandire anche una forma sostanzialmente innocua di opposizione al cristianesimo come l’agnosticismo, che si limita a dire "io non so"!».

Per affermare la democrazia si arriverebbe a negarla?

«Mi pare chiaro. Un discorso simile auspica - oggettivamente, si badi - uno Stato teocratico o assolutista che bandisce la libertà di pensiero».

Però il Papa lo pone come problema culturale, no?

«Certo è così. Ma ripeto: al di là delle intenzioni, che sono nobilissime, l’esito è inevitabile: bandire dallo Stato il pensiero critico».

Ma per lei, professore, relativismo e agnosticismo sono davvero predominanti?

«No, perché la filosofia del nostro tempo non è semplice agnosticismo e relativismo, ma qualcosa di essenzialmente più forte. Spesso se ne fa un fantoccio per abbatterlo più facilmente. Ma, oltre il fantoccio, c’è qualcosa di ben più potente: esiste certamente il predominio concettuale del pensiero filosofico che si allontana dal passato e mostra l’impossibilità dei valori della tradizione cristiana. Mostra cioè che l’esistenza di un immutabile e divino ordinamento della realtà implicherebbe l’inesistenza del mondo, cioè l’assurdo. Certo, tutto questo andrebbe visto nella sua concreta fondatezza, esplorando il sottosuolo del pensiero degli ultimi secoli».

Sta dicendo che per la Chiesa è anche peggio di quel che le sembra? Le preoccupazioni del Papa sono fondate, allora...

«Questo è il punto, sono fondatissime! Quella che ho chiamato la filosofia del nostro tempo non è qualcosa di subdolo, e anzi è in opposizione esplicita alla tradizione. Tutta la cultura degli ultimi due secoli, oggettivamente guidata da quella filosofica, va in direzione opposta al cristianesimo, anche se spesso il laicismo non ne è consapevole e si riduce esso stesso a fede o dogma. Sia chiaro: il mio discorso filosofico non solidarizza con il pensiero contemporaneo. Dico che occorrerebbe una sorta di maieutica, l’arte della levatrice di Socrate: bisognerebbe in tal caso aiutare questo pensiero a dare alla luce la potenza del proprio grembo, che per lo più rimane nascosta. Dopodiché si potrà dare l’addio sia alla filosofia contemporanea sia al passato, verso qualcosa di più alto».

Ma quel «grembo» non pregiudica la libertà religiosa?

«Come il laicismo tende a essere una fede che ignora la propria potenza, lo stesso accade per la democrazia: quel grembo, ignorato, garantisce una libertà maggiore».

Descrive una situazione tragica, per la Chiesa...

«Sì, tragica, ma per tutto il passato. Però penso che per la Chiesa non sia il caso di chiudere gli occhi davanti al suo nemico. Essa stessa dovrebbe collaborare a quella maieutica di cui parlavo: vedere il sottosuolo. Qui si apre il vero dialogo tra la Chiesa e il pensiero filosofico».


(Upuaut)
00venerdì 6 gennaio 2006 19:57
Relativismo etico, la questione è ancora mal posta

di Maurizio Viroli
IL prof. Ercolino Cannizzaro, da Cosenza, mi ha scritto: «In merito al suo ultimo articolo, (La Stampa, 10 maggio 2005 - vedi in fondo), mi viene da osservare che se non ci sono, come lei sostiene, valori e fondamenti assoluti, semplicemente, temo, non ci sono valori! Mi rendo perfettamente conto che i valori non si possono imporre (e tuttavia la legge punisce i mafiosi e coloro che si arricchiscono violando l'altrui dignità!), ma non credo sia molto “educativo” aver paura di affermarli! Ho l'impressione che, alla lunga, il relativismo come dogma (che sarebbe poi un valore assoluto!) non porti molto lontano ma costituisca un sintomo di decadenza. Dostoevskij sosteneva che se Dio non esiste tutto è permesso. Credo che avesse ragione!».

La questione che il gentile lettore solleva è uno dei temi fondamentali della riflessione morale e religiosa del nostro tempo. Prova ne sia che il cardinale Ratzinger ne ha trattato nell'omelia del 18 aprile prima dell'inizio del conclave che lo ha elevato al soglio pontificio. «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa - ha affermato il cardinale -, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».

Nonostante l'ampio consenso che conforta in tutto il mondo (qui negli Stati Uniti in particolare) la denuncia dei mali del relativismo morale, continuo a pensare che sia mal posta e che il relativismo morale, quello vero, sia una convinzione, non un dogma, intellettualmente più onesto dell'assolutismo morale. La denuncia contro il relativismo morale, quale emerge dal brano dell'omelia che ho citato, è mal posta perché dipinge il relativista come una persona che un giorno crede in un valore e il giorno dopo sostiene un valore diverso o opposto. Ma questo è il ritratto di un individuo senza personalità morale, non del relativista. La personalità morale è infatti data dalla coerenza delle convinzioni e dell'operare a esse conforme. Il relativista è altra cosa: è semplicemente una persona che accetta il fatto che i valori morali sono tali se e fin quando la coscienza morale personale li accetta liberamente come tali. Proprio perché è la coscienza morale personale il giudice ultimo in materia di valori morali, può esserci, e lo vediamo tutti i giorni, un conflitto di valori: conflitto per esempio, fra chi crede che la libertà sia il valore supremo della vita e chi crede che il valore supremo sia il trionfo di un'ideologia che nega la libertà. Ma una volta che la coscienza morale personale accetta un valore morale, quel valore diventa un valore supremo che ispira tutta la condotta pratica della vita, e se necessario impone il sacrificio, come dimostrano gli infiniti esempi di persone che hanno dato la vita per un ideale senza credere che fosse una verità assoluta. Il vero relativismo etico è intellettualmente più onesto dell'assolutismo perché riconosce la realtà delle cose e accetta i limiti della ragione umana. Affermare che esistono valori morali assoluti di per sé evidenti può essere bello e confortare gli animi, ma è falso. Quali sarebbero i valori che ogni coscienza morale accetta? Dico accetta sul serio e dunque rispetta, non proclama a parole. E se la coscienza morale degli uomini non li accetta come valori sono ancora valori assoluti? Io posso ripetere mille volte che è immorale uccidere innocenti, ma il terrorista mi risponderà sempre che lui riconosce altri valori quali valori supremi e che la sua coscienza parla in modo diverso dalla mia. Capisco perfettamente l'esigenza di chi vuole fondamenti più solidi della semplice coscienza morale personale e li cerca in Dio, o nella storia, o nella ragione. Il problema è che né Dio, né la storia, né la ragione offrono fondamenti assoluti. Provi, chi crede il contrario, a ricavare da Dio, dalla storia o dalla ragione tali fondamenti. E quando anche si trovasse il fondamento assoluto, la guida vera dell'agire resterebbe sempre la coscienza personale, che è altra cosa dal capriccio: se c'è è più che sufficiente; se non c'è niente può sostituirla.

Tratto da: La Stampa, 17 maggio 2005, p.30

ostiaebasta
00sabato 7 gennaio 2006 09:37
Severinoooo ... ma come cazzo parli?

che sara' mai la maiuetica, maieutica ???

mi tocca cercare sull'enciclopedia mi tocca
ostiaebasta
00sabato 7 gennaio 2006 09:38
Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne). Letteralmente, sta per "l'arte della levatrice" (o "dell'ostetricia"), ma l'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel Teeteto. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della persuasione (Socrate, e attraverso di lui Platone, si riferiscono in questo senso ai Sofisti). Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti in opposizione ai lunghi discorsi degli altri - ovvero la brachilogia - e la rinomata ironia socratica.

Nel racconto dello stesso Socrate, l'ispirazione per questo tipo di dialettica derivava proprio dall'esempio che il filosofo aveva tratto da sua madre, la levatrice Fenarete.

Si trovano spunti e rielaborazioni del termine nello stesso Platone, durante tutto il Rinascimento e altrove.

C'è da aggiungere che la maieutica comincia solo dopo le fasi del rapporto maestro-discepolo e dell'ironia. Il rapporto tra adulto e ragazzo (Socrate-discepolo) in Grecia, era una cosa lecita anche dal punto di vista erotico (quello che si ammirava in una persona erano l'intelligenza, la raffinatezza spirituale e non l'aspetto fisico). Socrate però non arrivava all'atto sessuale. Il discepolo a quel punto era libero di scegliere se continuare il rapporto da un punto di vista ideologico oppure andarsene. Continuando questo rapporto subentrava la fase dell'ironia (finzione). Socrate fingeva infatti di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e attreverso il dialogo, Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo.



ah, ok ora e' tutto piu' chiaro! [SM=x584431]
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