Così Strauss-Kahn e Fabius provano a offuscare un po’ quella luce mediatica che fa brillare la stella Royal
Ségolène era in bianco. Molto chic, alla
destra di Dominique Strauss-
Kahn in giacca scura e cravatta zebrata,
mentre Laurent Fabius era a sinistra,
doppio petto blu e cravatta a pois.
Ségolène ha parlato per prima, non per
galanteria da parte dei due uomini, ma
per puro caso, poiché l’ordine dell’entrata
in scena, tirato a sorte, aveva scelto
lei, la favorita dei sondaggi. E’ stato
questo l’unico aspetto aleatorio in un
dibattito, quello del 17 ottobre, dove
ogni minimo dettaglio era stato definito
in anticipo, dopo estenuanti trattative
tra Jean-Pierre Elkabbach – il presidente
del canale Public Sénat, che aveva
organizzato l’evento in un hangar
dello Studio Carnot, a Saint Cloud – e i
tre concorrenti alle primarie del Partito
socialista, che il 16 novembre sceglierà,
col voto di circa duecentomila
iscritti, il candidato unico da presentare
alle presidenziali di primavera.
Nulla era affidato al caso, perché
ogni dettaglio ha un peso decisivo nella
drammaturgia della rappresentanza,
che prepara l’elezione a suffragio
universale diretto del presidente di 62
milioni di francesi: la scenografia con
lo sfondo di pannelli bianco ghiaccio
con una banda arancio in mezzo; la dimensione
dei tre pulpiti di legno, la
cui altezza variava in funzione della
statura dei candidati per non penalizzare
il tozzo Strauss-Kahn o favorire il
longilineo Fabius; i tre sgabelli inizialmente
osteggiati dai tre, che avrebbero
preferito una sedia, ma imposti dalla
regia, in quanto più telegenici, e alla
fine sobriamente nascosti dietro al
pulpito, quando gli emissari di Ségolène
hanno annunciato che avrebbe indossato
una gonna. Poi la distanza tra
la postazione di un candidato e l’altro,
per poterli riprendere di lato, e quella
dei giornalisti, Emmanuel Kessler di
Public Sénat e Emilie Aubry di LCP
Assemblée Nationale, che avrebbero
riformulato le dieci domande poste dai
militanti rilanciandole in caso di risposte
evasive, secondo quanto chiesto
dall’emissario di Strauss-Kahn. Il fattore
tempo, concesso ai tre per rispondere
senza mai interloquire tra loro,
insieme con gli schermi al plasma posizionati
ai lati dello studio, è stato determinante,
con l’apertura degli angoli
delle riprese, dalle sette telecamere,
primi piani, piano americano, contropiani,
ottenuti a dispetto della camera
fissa pretesa da Ségolène, che pure ha
fatto gioco ai candidati.
Elkabbach, grande guru della scena
mediatica francese sin dai tempi di
Mitterrand, s’era ispirato al dibattito
americano tra John Kerry e George W.
Bush, e quello tedesco tra Angela
Merkel e Gerhard Schröder. Preso dai
modelli internazionali, s’era forse dimenticato
dell’alchimia speciale che
informa in Francia le presidenziali,
dando vita ogni volta al dogma dell’incarnazione
monarchica e al suo mistero,
che Jules Michelet riassumeva con
parole semplici: “L’intero corpo di un
gran popolo concentrato nella testa di
un imbecille”. Mai, però, avrebbe potuto
immaginare, il povero Elkabbach,
di ritrovarsi alle prese con tre candidati
così tignosi: hanno cercato di evitare
la diretta in ogni modo, non volevano
altri canali e chiedevano di
estrarre a sorte le domande da un contenitore
trasparente, ma pretendevano
di parlare in blocchi di trenta minuti
ciascuno, senza dibattere tra loro, e
senza essere interrotti da domande o
commenti di giornalisti. Alla fine,
Elkabbach è scoppiato: “Volete mica
tornare alla televisione di Breznev? Vi
ricordo che è morto”. Non ne poteva
più degli sgambetti tra gli emissari dei
tre, dell’odio che aleggiava sulle riunioni
preparatorie. A un certo punto,
per ricondurli alla ragione, ha minacciato
di riprendere con la telecamera
le trattative in corso e di mandarle in
onda. Così ha avuto partita vinta.
Ségolène, in testa ai sondaggi, sembrava
addirittura intenzionata al boicottaggio.
Temeva il confronto sui temi
più delicati, come economia e società,
con due draghi della politica come Dominique
Strauss-Kahn, ex ministro delle
Finanze e professore di economia a
Sciences Po, e come Laurent Fabius,
ex primo ministro e delfino di quello
che era stato il suo mentore, François
Mitterrand. Secondo la ricostruzione di
Philippe Alexandre (“Les éléphants
devant la peste”, Albin Michel ), avrebbe
rischiato l’infarto se gli avessero
detto che la sua giovane consigliera all’Eliseo,
vent’anni dopo, avrebbe aspirato
a diventare il Président Royal. Ségolène
temeva di perdere il vantaggio
acquisito non solo nei sondaggi per le
primarie, dov’era in testa di circa trenta
punti rispetto a Stauss-Kahn e di oltre
cinquanta su Fabius, ma anche in
quelli per le presidenziali, che ancora
domenica scorsa sul Figaro la davano
favorita – nelle intenzioni di voto al primo
turno – sui due candidati di destra,
e in testa al 51 per cento, nel secondo
turno, su Nicolas Sarkozy. Poi è scesa
in campo. La sera di martedì è comparsa
su Lci, la pay tv di informazione
no stop che ha trasmesso il dibattito in
diretta. E’ apparsa algida e sovrana, investita
come al solito di quella particolare
luce autoirradiante che da otto
mesi spiazza i suoi avversari, attirandole
l’attenzione esclusiva delle telecamere,
degli obiettivi fotografici, dei
tanti videomatori che ne riversano
l’immagine magnificata sulle copertine
dei grandi magazine nazionali e internazionali,
trasformandola in una star
irraggiungibile.
Era una luce fredda e autoirradiante
quella di Ségolène, anche se compromessa
dal bianco della giacca che
“sparava”, non mitigato dal bianco
ghiaccio dello sfondo, col risultato di
offrire della signora un visino un po’
cadaverico che, malgrado l’accorto maquillage,
non riusciva a nascondere i
segni di una tensione interiore fuori
controllo, pronta a esplodere al minimo
intoppo. L’intoppo c’è stato subito,
appena ha aperto bocca, alla prima domanda:
“Perché volete essere candidati?”.
Senza salutare nessuno, senza degnare
di uno sguardo i due sfidanti, il
presidente del Poitou-Charente è partito
in quarta, come un liceale lievemente
isterico all’esame di maturità:
“Per far vincere la sinistra e far avere
successo alla Francia”, ha risposto decisa
Royal. Si notava quella piega sulle
labbra, di solito morbida, che invece
era contratta e non aveva niente di sensuale.
Persino la voce sembrava un po’
incerta, più acuta e stridente del solito,
quasi vicina a un lamento, quando come
una brava mamma apprensiva ha
iniziato a salmodiare sull’“ordine giusto”,
e con modestia, pensando ai figli,
ha ammesso: “Non ho una risposta per
tutte le domande, ma voglio dare fiducia
a tutti i francesi, perché ciascuno
capisca quale sia il suo posto nell’impresa
e nella società”.
Dominique Strauss-Kahn era molto
più a suo agio. Non aveva niente da
perdere. Ripianate le borse sotto gli
occhi, eliminate le palpebre cadenti,
era pronto a giocarsi il tutto per tutto
pur di risalire la china, e tentare di
espugnare un partito i cui vertici, a
stragrande maggioranza, si sono schierati
con Ségolène. Ma il voto dei militanti
resta ancora un’incognita, e in
cinque settimane può succedere di tutto.
Così, col suo sorriso beffardo, da
scapestrato dilettante, di genio che si
prepara un discorso scarabocchiando
all’ultimo minuto due foglietti, Strauss-
Kahn ha vinto ai punti. Prima con la
galanteria, quando ha esordito con un
“Permettez-moi de vous saluer d’abord”,
senza voler troppo rimarcare la
scortesia della signora. Poi con la bonarietà
del professore rassicurante.
“Non siamo qui per vincere, ma per
cercare di convincere”, ha detto. Anche
negli ampi gesti delle braccia e nel
mangiarsi le parole tanto il pensiero
era veloce, era chiaro che cercasse l’unità
del partito, che volesse incarnare
una sintesi tra la destra di Ségolène e
la sua democrazia partecipativa, e la
sinistra di Fabius, volontarista e in lotta
contro l’ipercapitalismo finanziario,
stando sempre attentissimo a non mostrarsi
aggressivo per non spianare a
Ségolène la strada del vittimismo, garanzia
di sicura vittoria.
Laurent Fabius, attento come DSK a
schivare la trappola della debolezza
femminile, ha esordito per ultimo, dicendo
che il ministro delle Finanze lui
l’ha già fatto. Dunque corre solo per fare
il presidente, non per andare in soccorso
a Ségolène. Ha dichiarato di volersi
candidare per combattere le ingiustizie
e le ineguaglianze. Ha promesso
di aumentare lo smic, il salario
minimo garantito, di 100 euro, di consolidare
il potere d’acquisto rinazionalizzando
l’energia, ma con un piano europeo,
tassando le imprese che vogliono
delocalizzare, uniformando le imposte
europee sulle società, riqualificando
la ricerca e l’università, ma soprattutto
abrogando la riforma delle
pensioni votata dal governo di centrodestra.
“E’ stato l’unico che ha parlato
di Europa”, hanno commentato i suoi
fan più irriducibili. “L’unico che, pur
detestato dai vertici del partito, sia riuscito
a parlare di realtà insistendo sul
primato della politica e sulla forza dello
stato”, esclusiva prerogativa francese,
anziché proporre un patto dell’Eliseo,
come ha fatto Strauss-Kahn. Oppure
invocare i benefici di un sindacalismo
di massa come ha fatto Ségolène
che, nel suo sogno di decentramento
federalista, vorrebbe dare più poteri
alle regioni, assicurare la concertazione
sociale sul piano locale, sostenere il
microcredito d’impresa e spendersi
per una formazione professionale ad
hoc, come succede in Svezia e Danimarca,
e continuare così a irradiare ilsito
personale
www.désirsd0avenir, che
costituisce la sua base telematica.
Paradossi della politica, Fabius,
l’affossatore dell’Europa, parlava a nome
del Vecchio continente. Il successore
di Mitterrand, sembrava l’epigone
del mitterrandismo più spinto, quello
del primo settennato, economia di piano
e delle nazionalizzazioni a tappeto,
secondo una rotta che era stato chiamato
a correggere nel 1984. Parlava da
perfetto monarca, combinando il freddo
tecnocratese col pathos dei miserabili
della banlieue di Rouen, che non
arrivano a fine mese. Ma per gli esperti
di prossemica che hanno dissezionato
la diretta televisiva, parlava soltanto
a se stesso, chiuso nel suo rancore di
terzo classificato nelle simpatie dei militanti,
gelido nell’eccellenza della “bête
à concours”, che ha vinto tutti i concorsi
del mondo, l’Ecole Normale, l’Ena,
Matignon, per ritrovarsi a brigare
un’investitura con una pasionaria federalista
del Poitou Charente.
Anche per questo, a poco a poco,
Strauss-Kahn, che era l’outsider, il candidato
improbabile traditore di Lionel
Jospin e seduttore incallito, marito infedele
di Anne Sinclair, vecchia star
del giornalismo televisivo che per sposarlo
ha abbandonato Tf1 e ne finanzia
ora la campagna grazie ai proventi della
liquidazione milionaria, il professore
inviso ai milianti di base più radicali
in quanto intimo amico dei padroni
del Cac 40, ha cominciato a levitare. Sicuro
di sé, quando diceva di voler realizzare
la socialdemocrazia, abbastanza
reattivo quando ha replicato a Fabius
– che sottolineava la poca concretezza
degli argomenti, anche se in
realtà era una frecciata a Ségolène – e
attendibile quando ha spiegato che
senza la crescita non può esserci maggior
potere di acquisto.
L’indomani il pubblico l’ha premiato
col 32 per cento del gradimento,
quattro punti percentuale in più rispetto
ai due sfilati a Fabius – che
scende al 5 per cento – e ai tre persi da
Ségolène, che resta comunque in testa
col 63 per cento. “Si sente che la sua
campagna interna sta prendendo quota”,
ci dice Pierre Moscovici, deputato
europeo, che di Strauss-Kahn è fra i
consiglieri più ascoltati. La strada è
aperta per una sfida avvincente. Se
molti sognano un ticket tra Royal presidente
e Strauss-Kahn vice e ministro
delle Finanze, le istituzioni della Quinta
Repubblica non lo consentono:
“Strauss-Kahn non può essere candidato
a una funzione che non esiste”, osserva
Moscovici. “Se si candida, lo fa
come Fabius perché è convinto di essere
migliore di Ségolène”.
Dunque, via alla campagna interna
fra le federazioni di provincia, dove
Ségolène, osannata come una Madonna,
è abituata a conquistare ogni singolo
voto, casa per casa. L’offensiva di
Strauss-Kahn, lo sfidante sicuro di sé,
dell’appoggio di Robert Badinter e del
sostegno dei “jospinistes”, che mai voterebbero
per Royal, e di altre frange
di attendisti che aspettano soltanto di
aprire gli occhi davanti alla signora,
impensierisce Ségolène. Semina dubbi
fra i suoi stessi sostenitori, a cominciare
dal loro numero uno, Laurent Joffrin,
l’ex giornalista di Libé che ne ha
promosso con pochi amici la candidatura
sul Nouvel Observateur, e che ora
vede sulle pagine dello stesso Nouvel
Obs ventilare l’ipotesi di “un erreur de
casting” in seno al Ps e all’ampio elettorato
potenziale di Ségolène. La sua
candidatura sarebbe dunque un errore
di casting? Nato per caso dall’impennata
di una donna che vuole stroncare
il compagno traditore, come vuole
la leggenda metropolitana che circola
tra gli addetti ai lavori? Il privato
dei presidenziabili, nonostante il velo
sollevato da Cécilia e Nicolas Sarkozy,
e dalla recente inchiesta di Deloire
&Dubois (“Sexus politicus”, Albin Michel),
continua a restare un tabù in un
un paese che si specchia ancora nella
tradizione dei sovrani galanti e delle
favorite di corte. Eppure sono in molti
a porsi la domanda se il sorriso di Ségolène,
lungi dal rivelare il volto di
una materna Gioconda, pronta a rassicurare
i propri figli, a tendere da emula
di Tony Blair una mano compassionevole
ai più deboli, a sostenere in nome
di un welfare scandinavo e postmoderno
le ragioni degli esclusi, non
nasconda invece una personalità di
ferro. E se la vera cifra di Ségolène fosse
la lama d’acciaio, di cui scrive Alain
Duhamel, che deve ancora farsi perdonare
di averla ignorata fra i pretendenti
del 2007? Una personalità autoritaria
e dispotica, sino all’ostracismo,
capace di umiliare, di dettar legge, non
solo ai fotogiornalisti che hanno l’ordine
tassativo di non riprenderla mentre
mangia, ai militanti come la povera ragazza
strigliata in pubblico per aver
osato chiederle se non fosse un po’ destrorsa?
L’interrogativo rimane, alimentato
ad hoc dai seguaci di Strauss-
Kahn e dai sostenitori di Fabius. Ma è
ancora troppo presto per dire se riusciranno
a compromettere un sogno e
a incrinare la bolla mediatica che avvolge
Ségolène.
di Marina Valensise, Il Foglio di ieri.