Spunti tedeschi

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Slobodan
00mercoledì 20 settembre 2006 17:20
La radice araba della parola ragione è incarcerare.

Aderisco volentieri a inviare un contributo
sul discorso del Papa a Ratisbona,
innanzitutto per ringraziarlo, tanto più
di fronte agli attacchi che sta subendo. Lo
ringrazio della magnanimità e dell’acume
con cui corregge, ovvero, letteralmente,
regge per noi e insieme a noi una strada
tutt’altro che facile. Dietro il suo lieve sorriso
c’è la forza dell’architrave che tiene
su la cattedrale. C’è la capacità, caro direttore,
di provocare un commento come
il suo, che basterebbe da solo a documentare
che non ci può essere fede senza ragione
e che nessuna fede può andare contro
le esigenze vere di un uomo, qualunque
uomo, credente o non.
Benedetto XVI comincia la sua relazione
con la descrizione della sua “vecchia
università dei professori ordinari”. Lì,
una volta ogni semestre, nel cosiddetto
dies academicus, “tutti” i professori si radunavano
davanti agli studenti a discutere
di “tutto”, “del tutto”, che – nonostante
“tutte le specializzazioni” – esploravano
con l’“unica ragione”. Così, “nella comune
responsabilità per il retto uso della ragione”,
l’uni-versitas – verso l’unicità della
conoscenza – “diventava esperienza viva”.
Bene, questa università non esiste
più, almeno da noi; e non esiste più, non
perché non ci siano più i baroni, che ci sono
ancora, ma perché non esiste più la ragione
che la fonda. Lo dico da professore
ordinario e vado avanti con la mia storia
di ciellino, su una conseguenza non minore,
secondo me, dell’intervento del Papa.
Sono reduce dal Meeting di Rimini che,
guarda caso, era dedicato alla ragione e
alla sua esigenza di infinito. Secondo
quanto riportato nel comunicato finale,
l’acme culturale della manifestazione si è
raggiunto inaspettatamente con la presentazione
dell’edizione araba de “Il senso
religioso” di don Luigi Giussani, da
parte di due intellettuali mussulmani. Andando
a cercare il significato etimologico
della parola ragione nella lingua araba, il
professor Wa’il Farouq dell’Università
del Cairo ha scoperto che esso è “legare,
incarcerare, chiudere dentro”. Ha compreso
allora perché la “ragione sia sempre
stata in eterno confronto con la religione
fino all’accusa di apostasia dei fondamentalisti
islamici verso gli intellettuali”.
Ha concluso che il libro di don
Giussani gli aveva aperto “nuovi orizzonti”
perché valorizzava in modo del tutto
nuovo l’esperienza elementare dell’uomo,
creando una reale tensione al dialogo. Il
comunicato del Meeting, per parte sua,
concludeva che “come ricorda sempre
Benedetto XVI”, vedi appunto Ratisbona,
“la ragione è incarcerata anche in occidente”
e si dava come titolo “Scarceriamo
la ragione”.
Don Luigi Giussani non era casualmente
amico di Joseph Ratzinger e il perché
di questa amicizia oggi mi interpella sempre
di più. La considerazione da parte di
don Giussani della esperienza elementare
e della sua decisiva importanza nella
educazione e nei rapporti proviene dalla
certezza che l’uomo, per quanto fragile e
cattivo, è fatto a immagine di Dio, cioè è
“intelligente”; inoltre, Dio lo ama fino a
farsi Egli stesso carne.
L’esperienza elementare, infatti, non è
un semplice provare, ma un incontro che
trasforma l’anonimato dell’esistenza in
“io”, scoperta di essere amati e del valore
positivo delle cose. Così, la realtà – il cielo,
la terra, gli altri – non è più arida o muta,
ma parlante del grande mistero che la
fa. Dio non rinnega certo l’avvenimento
dell’esperienza umana, ma lo suscita e lo
“segue” per convincere della sua presenza
nella storia. Così provoca la ragione a
estendersi, a uscire dalla prigione in cui è
tentata continuamente di rinchiudersi.
Anche gli universitari, gli scienziati, possono
accorgersi con stupore di ciò che dice
la Bibbia: “Ma tu (Jahvé) hai regolato
ogni cosa in numero, peso e misura” (Sapienza
11, 20).
Ma, pensando ai miei quasi quarant’anni
di università, capisco che il lavoro è appena
cominciato. Come dice il Papa nell’ultima
riga del suo discorso, ritrovare il
“grande logos”, la “vastità della ragione”
è il “grande compito” dell’università. Perché
se la ragione non c’è nelle università,
è difficile che si diffonda da altre parti.
Non si tratta di essere intellettuali, ma
realisti.
Giancarlo Cesana



Il nemico dell’occidente è l’occidente stesso.

Se ho compreso bene la lezione di Papa
Benedetto XVI, mi sembra che abbia
voluto dire questo: Dio, oltre che Amore,
Caritas, è anche Logos, ragione. Da un
punto di vista religioso il discorso è chiaro:
amare, senza ragione, vuol dire non
amare, o meglio, amare ciò che non va
amato. Anche l’amore, infatti, deve essere
razionale, logico, indirizzato al Bene.
Sembrerebbe semplice ma non lo è così
tanto: non mancano preti o opinionisti che
spiegano che in fondo la prostituzione è
un altro modo di amare, o che uccidere
un figlio, con l’aborto, perché non si può
mantenere “decentemente”, è un modo,
un altro ancora, per dimostrare il proprio
amore.
Politicamente il discorso del Papa mi
sembra sintetizzabile in questi termini: il
nemico dell’occidente è l’occidente stesso,
nel momento in cui rinnega la sua storia,
piena di umane miserie, ma anche di
greco-romana e biblica grandezza. L’Europa
cristiana è patria dell’arte, dell’astronomia,
della medicina, di tutte le
scienze: è il luogo in cui si realizza la vocazione
naturale della nostra ragione a indagare
la realtà. Ma tutta la realtà, secondo
la sua ampiezza, la sua altezza, larghezza,
e profondità. L’occidente è nemico
di se stesso quando imbriglia la ragione,
imponendogli dei confini (il regno delle
cose materiali), e spacciandoli per orizzonti.
E’ incredibile come sia stato notato
poco spesso questo paradosso: l’illuminismo
non nasce come esaltazione della ragione,
ma come limitazione della stessa al
fenomenico, al tangibile, ai singoli e piccolissimi
perché, in una parola, a ciò che
all’uomo interessa meno. L’illuminismo
prostra la ragione, come fa Kant, quando
la fa a spezzatino, sminuzzandola come
fosse un pezzo di carne; quando fa uscire
Dio da una finestra della ragione (la ragion
pura), e ne crea un’altra (la ragion
pratica), per farlo entrare di nuovo, ma
non compiutamente; quando, infine, spiega
che tutto l’ordine esistente, quello che
ogni ragione desidera, e miracolosamente
trova, è soltanto un ordine fittizio, soggettivo,
che non appartiene al noumeno,
cioè alla realtà vera (terribile, incredibilmente
irrazionale, questa distinzione razionalistica
tra realtà “vera” e realtà “falsa”).
L’occidente, ancora, è nemico di se
stesso, come Cronos con i suoi figli, quando
nega il diritto naturale, cioè la legge
fondata sulla ragionevolezza, e non sull’arbitrio
dei numeri, delle cangianti assemblee
parlamentari; quando sostiene
che la libertà può coincidere con l’autodistruzione,
con il suicidio, l’eutanasia, la
possibilità di drogarsi (mentre la libertà è
legata alla ragione, in quanto è la Verità a
farci liberi, e non viceversa). Che poi un
mondo che è nemico di se stesso crolli,
non è una novità: lo temevano a suo tempo
i “laudatores temporis acti”, i catoniani
sostenitori del “mos maiorum”. Rispettare
il costume dei padri, la Tradizione, significa
rimanere lungo una strada che
prosegue, ma che è partita da un punto e
ha raggiunto parecchi obiettivi. Invece noi
rigettiamo il Dio dei Padri, e il costume
dei padri, come Lucifero col suo “non serviam”,
come Adamo ed Eva con la loro
idea di poter fare loro la realtà, di essere
padroni del bene e del male. Fare bambini
in vitro, cos’è, prima che una azione immorale?
La negazione violenta, irrazionale,
della nostra figliolanza, umana e divina,
e la negazione di un ordine razionale,
che si protrae nella storia. L’occidente,
inoltre, fa ridere, sorridere, amaramente,
quando si difende dallo straniero mostrandogli
videocassette, come in Olanda,
dove vi sono donne o uomini che si baciano
tra loro. Ride, con sarcasmo, dentro di
sé, l’asiatico o l’africano, che potrà anche
adorare un dio che non esiste, ma non è
ancora arrivato al punto di negare totalmente
la realtà dei rapporti naturali, il diritto
naturale di cui sopra. Solo fastidio
possiamo suscitare, e senso di disgusto,
quando proponiamo ad altri qualcosa che
è ancora peggio di ciò che essi stessi già
hanno. Li confortiamo nel loro disprezzo,
non guadagniamo la loro stima, perché ci
mostriamo deprecabili, non come singoli
uomini, che poco importa, ma come civiltà.
In queste condizioni l’occidente, già
scientifico e poi scientista, si riempie di
maghi, indovini, new agers, credenze
orientaleggianti; intanto uomini terrorizzati
dal vuoto abbracciano altre religioni,
che sembrano piene di spiritualità, come
il buddismo, o che offrono certezze rassicuranti,
e un po’ di rigore, come l’islam.
Anche qui, a causa di un malinteso immenso:
da due secoli ci insegnano che la
ragione è una certa, misera cosa, che vola
solo basso, ma che va bene così, e che la
fede è una bruttissima faccenda, il contrario
della ragione. Perché allora non provare
il contrario, anche l’irrazionalismo
più esasperato, scambiato per spiritualità,
si chiede qualcuno, se i frutti del razionalismo
sono questi? E mentre le credenze
più strane fanno i loro proseliti, molti sacerdoti,
vescovi, e talora cardinali, si danno
da fare non per insegnare Cristo, il Logos,
ma per fare cerimonie sincretiste,
multireligiose, come se si potesse dialogare
adorando insieme dei diversi, e non attraverso
il riconoscimento di un comune
denominatore, la ragione, che può aprire
alla adorazione di un Dio razionale e misteriosamente
grande. Dobbiamo batterci
il petto, come prima arma di difesa. Del
resto il primo nemico dell’uomo, ciò che lo
porta alla morte spirituale definitiva, per
un male interno, o esterno, è il peccato,
cioè l’azione che noi compiamo contro noi
stessi e contro il nostro bene.
Francesco Agnoli



Il divorzio dell’islam dalla scienza è palese.

Ha colto nel segno David Frum osservando
che l’analisi di Papa Benedetto
XVI della natura del jihadismo è molto
più radicale di quella di George W. Bush,
che lo considera un aspetto degenerativo
recente dell’islam, mentre per il pontefice
deriva dalla stessa teologia islamica.
All’incalzare dell’attualità Benedetto XVI
ha risposto con una lezione magistrale
che è andata alla radice dei problemi e
ha centrato le questioni fondamentali:
che cosa caratterizza la civiltà europea e
occidentale; perché l’islam ha seguito un
percorso divergente; in che senso l’occidente
sta distruggendo se stesso.
La tradizione monoteista ebraica e poi
cristiana rompe con la visione del mondo
antico che concepisce natura e divinità
come un tutto unitario. Essa divide il
mondo in due: natura e uomo da un lato,
e Dio trascendente e infinito dall’altro, così
ponendo i fondamenti della concezione
morale. Ma subito si adopera a riempire
l’abisso tra Dio e l’uomo ricercando le vie
per riattraversarlo, nella convinzione della
corrispondenza tra la sfera divina e la
sfera umana.
Ebraismo e cristianesimo sono uniti
dall’esigenza di rispondere alla grande
questione della presenza di Dio nel mondo
e del rapporto tra Dio e l’uomo, anche
se si dividono sulla risposta. Condividono
l’idea che il rapporto tra Dio e uomo si
fonda sul “logos”, che è ragione e parola,
come dice il Papa. La frase “In principio
era il logos”, del Vangelo di Giovanni,
coincide con l’idea ebraica secondo cui la
creazione è un atto linguistico. I percorsi
di queste teologie sono sostanziati da un
dialogo incessante con il pensiero greco.
È la tendenza che culmina nel progetto rinascimentale
di costruire una visione dell’uomo
basata sul messaggio cristiano, sull’ermeneutica
ebraica e sul pensiero greco
e in cui Atene diventa un distretto di
Gerusalemme.
Il Papa sostiene che la dottrina musulmana
si è estraniata da questo percorso,
affermando il carattere assolutamente
trascendente di Dio, la sua estraneità totale
all’uomo e alla sua ragione: “Dio non
è legato neanche dalla sua stessa parola e
niente lo obbliga a rivelare a noi la verità”.
Le miserie culturali del “politicamente
corretto” ostacolano l’approfondimento
delle radici di questo divorzio dell’islam
dall’occidente, dopo qualche secolo
di dialogo con il pensiero greco.
La natura e la necessità
E’ un divorzio evidente sul terreno della
scienza, cui pure l’islam ha dato nel primo
medioevo contributi fondamentali, e
che si riassume nella sconfitta del pensiero
di Averroè da parte della teologia di
al Ghazali. Per quest’ultimo la natura non
aveva alcun carattere di necessità, ed era
impossibile parlare di leggi naturali: la
volontà divina può spezzare in qualsiasi
momento l’ordine del cosmo, che è volontario
e non obbedisce ad alcuna norma. In
tal modo, la conoscenza scientifica del
mondo è esclusa perché il mondo non ha
alcun carattere oggettivo, neppure al livello
dei fenomeni inanimati più lontani
della coscienza.
Affermando invece l’idea che la ragione
umana è partecipe del disegno divino
si sono poste le basi per gli sviluppi
straordinari della conoscenza e della tecnologia
nell’ambito della civiltà occidentale.
Ma l’oggettivismo è andato troppo in
là, con un peccato di hybris che ha incluso
ogni forma di conoscenza nella scienza
della natura e ha ridotto la ragione alla razionalità
scientifica. In tal modo, l’occidente
ha eroso le basi stesse della sua
grandezza e ha aperto la via a un declino
drammatico.
Verranno le solite accuse al Papa di
oscurantismo antiscientifico. A me pare
che le sue parole riecheggino quanto scriveva
un grande filosofo razionalista, Edmund
Husserl – e se qualcuno dirà che anche
lui era un oscurantista si accomodi,
non c’è limite al fanatismo – quando diceva
che il positivismo ha decapitato l’idea
di ragione escludendo da essa problemi
cruciali come quello dell’immortalità, della
libertà e, infine, di Dio “in quanto fonte
teleologica di qualsiasi ragione nel mondo,
del ‘senso’ del mondo”.
Nel 1935, a una vigilia di eventi drammatici
non molto diversa dall’attuale, Husserl
osservava che la crisi europea aveva
due sbocchi: il tramonto, “nell’estraniazione
rispetto al senso razionale della propria
vita”, o “la rinascita attraverso un
eroismo della ragione capace di superare
il naturalismo”. “Combattiamo – egli diceva
– in quella vigorosa disposizione d’animo
che non teme nemmeno una lotta destinata
a durare in eterno; allora dall’incendio
distruttore dell’incredulità, dal
fuoco soffocato della disperazione per la
missione dell’occidente, dalla cenere della
grande stanchezza, rinascerà la fenice
di una nuova interiorità di vita e di una
nuova spiritualità”.
Giorgio Israel



La fede è una cosa semplice proprio perché razionale.

La struttura del discorso di Benedetto
XVI all’Università di Ratisbona ha
una singolarità. Prende le mosse da una
dura critica alle patologie religiose, quelle
che legittimano la violenza in nome di
Dio, e si dispiega poi in un esame dei rapporti
tra fede e ragione, tra cristianesimo
e razionalità, anche da un punto di vista
storico.
C’è, però, un punto di connessione tra
le due parti dell’intervento, quando riprende
le parole di Manuele II Paleologo
per affermare che “non agire secondo ragione
(logos) è contrario alla natura di
Dio”. In questo modo, la ragione è il punto
di connessione tra Dio e l’uomo, è il dono
maggiore che l’uomo ha ricevuto, è il
criterio sommo per giudicare e valutare
anche le religioni e la loro evoluzione.
Lungi dall’essere ovvia, l’affermazione
del Papa comporta la critica radicale di
tutti i sofismi su Dio, compresi quelli formulati
in ambito teologico. Se Dio è onnipotente
non è soggetto alle leggi da lui
stesso create. Queste leggi potrebbero essere
diverse, se solo Dio lo volesse. Se
Dio volesse il male dovremmo obbedirgli.
Combattendo questi sofismi, Leszek Kolakowski,
formula “in modo frivolo” l’antisofisma
per eccellenza quello per il
quale c’è una cosa che Dio non può fare
(e che invece può fare l’uomo), dal momento
che “non può suicidarsi”. Infatti,
Dio “non può fare ciò che è logicamente
impossibile o moralmente ingiusto, in
quanto le corrispondenti norme si identificano
in lui”. Benedetto XVI respinge
l’equazione Dio=arbitrio, e propone una
immagine divina che è insieme ragione,
amore, sostegno all’uomo. Propone cioè
un’immagine che si è venuta formando,
soprattutto con il cristianesimo, nella cultura
occidentale, ed è stata elaborata nel
tempo anche attraverso l’esercizio della
ragione.
L’intervento del Papa nel suo complesso
è uno dei più ricchi, e completi, inni alla
ragione che siano stati elaborati di recente
in ambito cristiano. La ragione svolge
un ruolo essenziale anche nel giudicare
le religioni. Benedetto XVI lo ha ricordato
nei giorni scorsi quando ha detto
che una religione che giunga a vera maturazione
non può incitare alla violenza.
Lo ha ricordato a Ratisbona quando ha
citato Socrate, per il quale “sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione
per tante cose sbagliate, per il resto
della sua vita prendesse in odio ogni
discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in
questo modo perderebbe la verità dell’essere
e subirebbe un grande danno”.
L’osservazione socratica può riferirsi alla
religione. Se a motivo di posizioni religiose
errate si prendesse in odio la religione,
si perderebbe un bene fondamentale
e si subirebbe un gran danno. Quindi
anche le chiese possono sbagliare, ma
esse si evolvono e devono continuamente
migliorarsi.
Sta qui la forza della critica alla guerra
santa e all’odio religioso. Perché è una
critica razionale e spirituale insieme. Certo,
anche il cristianesimo in qualche segmento
della sua storia ha ceduto alla tentazione
di imporre la verità religiosa con
la forza. Ma Manuele II Paleologo sta lì a
ricordarci che il cristianesimo si rivolge
con parole ragionevoli a un’anima ragionevole
perché si convinca di determinate
verità o a compiere determinate scelte.
Sono parole che potrebbero (e dovrebbero)
essere pronunciate da ogni buon illuminista.
L’inno alla ragione prosegue nella seconda
parte della “lectio” pontificia
quando ricorda che l’ebraismo e il cristianesimo
lungi dal rappresentare il distillato
puro della volontà divina che è
sceso sulla terra come una improvvisa
pioggia, si è amalgamato con l’evoluzione
umana e in primo luogo con la cultura ellenista,
che già aveva posto le basi per
una conoscenza razionale sempre più vasta
e per una aspirazione al trascendente
sempre più esigente.
Può sembrare sorprendente questa difesa
dell’ellenizzazione del pensiero giudaico-
cristiano da parte di Benedetto
XVI. Eppure, in questa difesa si ritrovano
due formidabili elementi di critica all’illuminismo
radicale dei nostri tempi. Il
primo riguarda la selezione arbitraria che
il pensiero moderno ha fatto dell’esperienza
e della cultura greco-romane,
espungendo da esse la concezione unitaria
(razionale e trascendente, giuridica ed
etica) dell’uomo. Così facendo si trova oggi
a dover espungere tanta parte del pensiero
platonico, aristotelico, ma anche del
pensiero di Cicerone, di Seneca, di Plotino,
non cristiani ma incomprensibili senza
le rispettive aspirazioni religiose. Credo
sia un bell’esempio di critica razionale
a una irragionevole selezione della storia
e della tradizione culturale dell’occidente.
L’irragionevolezza del caso
Il secondo elemento percorre tutto l’evo
contemporaneo, e riguarda la pretesa
razionalista di emarginare sempre più il
cristianesimo e la cultura religiosa prima
dal cammino storico dell’uomo (la “sola
scriptura” di Lutero), poi dalla possibilità
di comprensione razionale (come ha fatto
l’illuminismo radicale), infine da tutto ciò
che interessa la realtà più profonda dell’uomo,
come cercano di fare le correnti
dello scientismo estremista. A queste ultime
Benedetto XVI riserva una di quelle
battute che valgono più di tanti ragionamenti,
quando chiede: cosa c’è che sia più
irragionevole del caso, e dell’arbitrio,
quelli che la scienza atea vuol mettere a
base dell’uomo e dell’universo?
Così facendo, si dimezza l’uomo, e se ne
esclude una gran parte, quella interiore,
spirituale (o psichica), che non si acquieta
alle bellezze del creato, o alle brutture
compiute dagli uomini. Questa metà non è
esclusa perché appartenente a una dimensione
che merita di essere conosciuta
con concetti e strumenti adeguati. No, è
esclusa perché sarebbe ininfluente sull’uomo,
sulla sua personalità, sulle sue
scelte etiche, sulle grandi opzioni storiche
e collettive. Così facendo, si compie un’altra
grande mistificazione in nome di un razionalismo
autosufficiente: si esclude dalla
storia individuale e da quella collettiva,
una delle più grandi forze che sono in grado
di fermare l’uomo sull’orlo di scelte irreversibili,
in materia di pace e di guerra,
di difesa dei deboli e di solidarietà verso
gli altri, di stravolgimento genetico del genere
umano.
Si può proporre una riflessione. Un
esperimento estremo di società che prescinde
totalmente (anche per legge) da Dio
e dalla religione è stato fatto, in tutto l’universo
comunista (e totalitario) contemporaneo,
un universo ampio geograficamente,
lungo temporalmente, immenso
dal punto di vista della quantità di uomini
coinvolti. Cosa ne è derivato, se non un
grande bisogno di rifondare queste società
daccapo, dopo che una larga fetta d’umanità
era caduta nell’arbitrio più totale, nella
violenza quotidiana del potere, nell’uso
opportunistico di principi e valori che avevano
perso ogni fondamento? Vorrà pure
dire qualcosa questa considerazione dal
punto di vista razionale.
L’intervento del Papa si conclude con
un riconoscimento forte alla razionalità e
all’illuminismo. Perché riconosce “senza
riserve” tutto ciò che nello sviluppo moderno
dello spirito è valido, e perché “tutti
siamo grati per le grandiose possibilità
che esso ha aperto all’uomo e per i progressi
nel campo umano che ci sono stati
donati”. E aggiunge che occorre tornare
ad un allargamento del nostro concetto di
ragione e dell’uso che se ne fa. In altri termini:
la religione, il cristianesimo in particolare,
ha fatto tesoro della lezione razionalistica,
il Papa non lo nasconde, ma è
il razionalismo che oggi deve far tesoro
della dimensione religiosa. Perché questa
è parte integrante dell’esperienza umana,
ed è ineliminabile dalla struttura antropologica
complessiva.
Se fede e ragione tornano a guardarsi
con simpatia e disincanto, si può comprendere
facilmente una espressione molto
bella usata da Benedetto XVI: credere
non è affatto una cosa complicata, è una
cosa semplice perché trova radici nel cuore
e nella razionalità dell’uomo. E’ la trasposizione
di quanto già sperimentato dai
mistici, e da san Giovanni di Dio in particolare
quando dice: “Segui la tua ragione,
essa ti condurrà a Dio”. La ragione può
condurre anche da altre parti, ma certamente
essa non è estranea alla fede.
Carlo Cardia



Figli di un Dio ordinatore. San Paolo e il logos

Un discorso mirabile, da accogliere
nella sua pienezza. Così Marta Sordi,
professoressa emerita di Storia greca e
romana dell’Università Cattolica di Milano,
definisce la lectio tenuta da Benedetto
XVI all’Università di Ratisbona, che in
queste ore sta provocando reazioni furibonde
e forse prevedibili nel mondo islamico.
Ma con la grande studiosa del mondo
classico, e fra le massime esperte dei
suoi rapporti con il cristianesimo primitivo,
è giocoforza scandagliare da un punto
di vista storico ciò che il Papa, in quel discorso,
ha analizzato nella sua dimensione
filosofica: ovvero il decisivo incontro tra il
cristianesimo, il Dio cristiano, e la razionalità
greca. “Da questo punto di vista”,
esordisce Marta Sordi, “la predicazione di
Paolo prima in Asia minore e poi in Grecia
è fondamentale per comprendere il
senso e la centralità di quell’incontro con
il mondo pagano, perché lo stile e la modalità
‘culturale’ di quella predicazione
saranno fondamentali per la sua azione
anche nel futuro, anche a Roma. Insomma
sono decisive per comprendere lo sviluppo
del cristianesimo”.
Quali sono gli aspetti centrali della predicazione
paolina? “Il primo aspetto, che
sarà sempre rispettato da Paolo, è quello
di rivolgersi in prima battuta sempre agli
ebrei, allargando il cerchio anche ai ‘timorati
di Dio’, cioè a quei seguaci del giudaismo,
ma non ebrei circoncisi, presenti
in molte città dell’Asia e della Grecia. Solo
in un secondo momento la predicazione
viene aperta ai gentili, ai pagani”. Dunque,
è anche il riconoscimento di una primogenitura,
di un inizio ebraico del messaggio
cristiano? “Certamente, perché ‘la
salvezza viene dai giudei’. Ma la seconda
cosa importante è il contenuto della predicazione.
Paolo parla agli ebrei innanzitutto
con riferimenti alle scritture, attraverso
la storia dell’Alleanza e poi attraverso
il richiamo alla grande profezia,
quella che annuncia la venutà di Gesù.
Quando si rivolge ai pagani, invece, il suo
riferimento è direttamente alla ragione,
alla concezione fortemente razionale che
i greci, e tutti i popoli variamente ellenizzati,
hanno di un Dio ordinatore. Da questo
punto di vista è interessante la predicazione
che fa a Listri in Licaonia, in Asia
minore, perché è esattamente l’anticipazione
del grande discorso che farà agli ‘intellettuali’
greci all’Areopago. E’ il richiamo
a un Dio ordinatore, che conduce le
stagioni e dà i frutti della terra, un Dio riconoscibile
– e riconosciuto dai pagani –
nella legge naturale e che ora ha mandato
il suo Figlio”.
Paolo dimostra quindi anche una grande
consapevolezza culturale, sa che un
Dio “ordinatore”, un Dio intelleggibile attraverso
la natura, non è né estraneo né in
contraddizione con il “Padre” rivelato da
Gesù. “Tutt’altro. Nel discorso all’Areopago
Paolo fa la famosa citazione, forse dai
‘Fenomeni’ di Arato, o forse da Cleante,
comunque da uno stoico: ‘Di lui noi siamo
la stirpe’, e questo è un altro aspetto importante.
Perché Paolo con i pagani insiste
molto sulla paternità di Dio, perché sa
che questo è un concetto estremamente
importante per i greci, per cui Zeus è padre,
e poi per i romani, che nella parola
Iuppiter riconocono la parola ‘padre’. All’Areopago
propone dunque un riconoscimento
comune, l’essere stirpe di Dio”.
Marta Sordi sottolinea anche un altro
aspetto indicativo dell’opera di Paolo, la
sua grande capacità di trattare con le
classi dirigenti, di saper interloquire con
persone di cultura, di saper fare amicizia.
Un chiaro segnale, anche, di una consapevolezza
culturale comune, condivisa.
“Ad esempio, il suo nuovo cognome – Paolo
– lo acquisisce a Cipro, dove sviluppa
un intenso rapporto con il proconsole romano,
Sergio Paolo, che si converte, tanto
da prenderne addirittura il cognome. Ed
è proprio il suo amico proconsole, io ritengo,
a spingerlo poi in Asia minore. Infatti,
il primo posto dove va è la Galazia, la
regione cioè dell’odierna Ankara, dove
c’erano i possedimenti dei Sergi Paoli”.
La presunta purezza primitiva
A Regensburg Benedetto XVI ha criticato
una certa concezione – del resto di
lunghissima data – che vede nell’elemento
“ellenico”, nell’elaborazione filosofica
e teologica di matrice greca una sovrapposizione
indebita rispetto alla “purezza”
del messaggio cristiano. Ciò che ci sta
spiegando a proposito della predicazione
di Paolo basta e avanza a smentire, anche
dal punto di vista storico, questa impostazione:
l’impressione è quella di un continuum,
di un elemento di sviluppo comune
avvenuto in quel mondo, in quegli anni, in
quel preciso ambiente culturale. E’ così?
“Esattamente. E’ importante capire che il
mondo greco e poi romano sono perfettamente
in grado di afferrare il messaggio
cristiano: dal punto di vista filosofico il
mondo greco; dal punto di vista della ‘virtus’,
della legge divina il mondo romano”.
Il Papa ha accennato anche a un rapporto
precedente il cristianesimo tra cultura
greca ed ebraismo: “Gli ultimi libri della
Bibbia sono indubbiamente impregnati
anche dalla filosofia greca, nella misura
in cui essa poteva essere recepita dallo
spirito ebraico. La Sapienza, che non pure
è scritto in greco, mentre lo sono i due
libri del Maccabei. E’ certo che ci sia stato
un avicinamento col pensiero ellenistico,
con le sue correnti maggiormente spirituali
come il platonismo. Mentre l’influenza
del pensiero ebraico, quel suo
concetto di Dio unico, è evidente anche
solo dalla diffusione di comunità non solo
ebraiche, ma giudeizzanti, di gentili
che seguono la Legge, in Grecia e in tutta
l’Asia minore”.
Un humus in parte comune, dunque.
Che cosa apporta di nuovo, allora, l’annuncio
del cristianesimo? “Ciò che fondamentalmente
faceva problema ai pagani, ciò
che li respingeva, nell’ebraismo, è proprio
ciò che Gesù per primo e il cristianesimo
hanno superato: un certo attaccameto scrupoloso
– per i pagani eccessivamente scrupoloso
– a certe prescrizioni della legge. Ad
esempio il sabato: gli ebrei si scandalizzano
perché Gesù viola il sabato, ma la sua risposta
è che ‘non l’uomo è per il sabato, ma
il sabato è per l’uomo’. L’altro aspetto che i
pagani trovavano inaccettabile dell’ebraismo
era la circoncisione: per loro era una
pratica ripugnante, una castrazione. Superando
questi aspetti, il cristianesimo rimuove
delle barriere enormi. E’ interessante
notare che il primo è proprio Pietro,
nell’episodio del centurione Cornelio. Cornelio
è un ‘timorato di Dio’, cioè un giudaizzante
non circonciso. Quando Pietro va
da lui, è probabilmente il 39 d.C., Pietro ha
la visione che non bisogna più distinguere
tra cibi buoni e cattivi, che Dio può superare
insomma la divisione tra ebrei e pagani.
E dice: come faccio a non darvi il battesimo,
anche se non siete circoncisi, se Dio
ha già deciso? Così i primi cristiani non circoncisi
saranno proprio dei soldati romani.
E quella contro la circoncisione dei battezzati
sarà la grande battaglia che Paolo combatterà
con i giudeo-cristiani, che invece la
vorrebbero imporre: ‘Non c’è più guideo né
greco’, dice. E nel superamento di queste
barriere in qualche modo solo formali, solo
rituali, avviene nel concreto – dunque
non solo filosoficamente – il grande incontro
tra il cristianesimo e il mondo greco pagano”.
“Non c’è niente da de-ellenizzare –
ribadisce la professoressa Sordi – è una stupidaggine”.
Certo, il cristianesimo è pronto
a prendere quel che c’è di buono c’è in ogni
cultura e tradizione, “e come abbiamo visto
Paolo è il primo a farlo. Ma anche dal punto
di vista storico il cristianesimo non diventa,
bensì nasce in questo contesto culturale,
giudaico, greco e romano”.
Tensioni con l’estremismo islamico permettendo,
Papa Ratzinger andrà in Turchia,
tra poco più di un mese, a far visita a
quel poco di chiesa ortodossa che lì è sopravvissuto.
Non fa impressione riflettere
che proprio in quei luoghi è iniziato il
grande rapporto tra la fede in Cristo e la
cultura pagana di quell’epoca? “Certamente
sì. Perché oltre alla predicazione di
Paolo c’è quella di Giovanni, e poi bisogna
pensare all’espanione enorme del II e III
secolo, e soprattutto alla grandiosa fioritura
nel IV e V secolo della patristica.
Grandi uomini come Giovanni Crisostomo,
Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazanzio,
Basilio. E’ la grande fioritura di una nuova
cultura nata dal cristianesimo. Avviene
lì, e la sua matrice, ancora una volta, è nell’incontro
con il pensiero greco. Ma idealmente
il Papa va a ricollegarsi proprio con
questa tradizione”.
Maurizio Crippa



La storicità di Cristo è parte della rivelazione.

Nel cuore non ho rintracciato una grande
differenza fra Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI. Se leggiamo i libri, le impressioni
e i diari di Karol Wojtyla troviamo
la stessa forte critica alla modernità. Wojtyla
cercava l’origine dell’incapacità umana e
si calava, come Ratzinger, a livello delle ultime
domande sulla vita. Ratzinger lo fa nel
suo stile teologico. L’islam è una questione
di oggi. Al tempo di Wojtyla c’era il problema
del marxismo e dell’umanesimo ateistico.
E’ Ratzinger il Papa che viene dopo l’11
settembre. Dopo quella data per Ratzinger
si crea il problema dell’esperienza del divino.
E’ il tempo di ridefinire in quale Dio
crediamo, non basta più dire che crediamo
in Dio. La parola “Dio” spesso finisce per
essere un’astrazione. Non siamo fermi a cinque
anni fa, ci sono state le Torri. Ma la
grande critica di Ratzinger è rivolta al cristianesimo,
non contro l’islam. Wojtyla disse
che la nostra era diventata una cultura
della morte. Come spiega anche Paul Berman,
credo che ci sia un incontro fra l’islamismo
e l’ideologia nichilista occidentale.
I cattolici progressisti non sono rimasti
molto contenti di questo discorso, ma non
erano contenti già dal fatto che questo Papa
fosse un teologo. Ratzinger ritorna invece a
essere teologo con questo discorso e riprende
i temi che nel 1968 elaborò nell’“Introduzione
al Cristianesimo”. Ai progressisti
non sarà piaciuto il suo discorso perché
la critica all’islam può essere rovesciata al
cristianesimo, cioè al problema del relativismo.
Ratzinger lo disse prima di entrare
nel conclave. Cosa significa “Dio”? Nessuna
parola è in grado di spiegarlo? Come si descrive
la nostra piccola libertà davanti a un
mistero così tremendo? L’uomo riconosce la
sua grandezza e ne ha paura. Ratzinger ha
un grande rispetto della tradizione. La storia
del cristianesimo per lui non è indipendente
dal suo contenuto. Che Cristo sia nato
maschio, che sia nato ebreo, che sia nato
in quel momento, dice san Paolo, tutto questo,
compresa la sua povertà, per il Papa diventa
parte della rivelazione. Questo incontro
fra la fede biblica e il mondo ellenistico
non è dunque accidentale. Il concetto della
persona umana è il risultato di questa lotta.
C’è stato da sempre il tentativo cattolico
di eliminare l’origine ebraica del cristianesimo,
la disebraicizzazione fornisce l’opportunità
di reinventare il cristianesimo.
Giussani diceva che il problema è che oggi
non si crede nella possibilità di una rivelazione,
Ratzinger vede il massimo scandalo
nell’incarnazione. Ebraico per Ratzinger significa
che tutta la proposta cristiana è presentata
nei termini della vita di questo piccolo
popolo. Il cristianesimo non è dunque
un sistema di idee, ma un fatto storico. Il paganesimo
vede invece il senso della storia
nell’armonia fra il mistero e il mondo, come
un luogo sacro, il cuore umano che ha l’esperienza
dell’armonia e della differenza. Il
paganesimo è paura e desiderio. E’ come
Fidel Castro che mi chiese perché c’erano
più conversioni al cristianesimo in Africa
che nell’Asia. In Asia il mistero è cercato al
di là di questo mondo, in Africa è cercato
ora, in questa persona, in questo rituale.
Ratzinger, poi, critica Kant là dove il filosofo
della ragion pura ha operato una separazione
fra l’azione umana e l’esperienza
della realtà. E’ l’inizio del moralismo, Kant
parla di dovere, ma dovere per cosa? Conta
il dovere morale o il giudizio “questo è vero”?
Il dovere o il logos? Kant è la separazione
della morale dall’ontologia, la negazione
del senso del compimento. Il kantismo
diventa protestantesimo, il rifiuto del valore
mediatore della ragione umana. Ratzinger è
il Papa del logos. Che significa parlare di logos
oggi in mezzo a gente che non ha mai
sentito usare questa parola. Perché l’uomo
vive? Perché non abbandonarsi in casa e
aspettare la morte? Cosa cerco là fuori? Ratzinger
dice che non è tutto un accidente cosmico,
uno sbaglio evoluzionistico, c’è un
senso della vita e un fine. Il logos è questo
senso, “in principio era il logos”, Ratzinger
ripete sempre questa proclamazione della
libertà, perché tutto altrimenti sarebbe una
truffa. Se non c’è razionalità, cerchiamo solo
il potere in quanto tale. La ragione è allora
la capacità di scoprire il logos.
La trascendenza assoluta dell’islam è
un’alterità radicale, Dio è tutto quello che
io non sono. Per l’uomo questo significa che
la ragione non è capace di fare una mediazione,
Dio se vuole può mostrarsi amico e
diventare mio nemico. Per Ratzinger invece
la trascendenza di Dio è così incredibile
che rende possibile un gesto come l’incarnazione.
Va infine detto che Ratzinger ha
fatto questo discorso da Papa, non solo come
professore di teologia. Può o no il Papa
concedersi il lusso di dire quello che ha
detto? Ratzinger pensa di sì, ed è stato incredibile.
Lorenzo Albacete



IL MONDO MODERNO NON OFFRE SOLO I RIDUZIONISMI DI LUTERO, KANT E VON HARNACK

Nella moschea, il centro dell’aula è occupato
dagli uomini. Nelle nostre
chiese, è più facile vedere al centro della
cerimonia e della frequentazione le donne,
scese molto tempo fa dal matroneo per
riempire i vuoi lasciati da mariti e figli. L’esperienza
religiosa (e sociologica: coinvolge
circa un miliardo di esseri, non dimentichiamolo
mai) di quegli uomini, scalzi,
genuflessi in lunghe file, con la testa prostrata
a terra, si collega ovviamente alla
forma, alla essenza stessa di Allah e alle
origini guerriere dell’islam: a quei fedeli
inginocchiati manca solo la scimitarra. Difficile
pensare che una religione così potentemente
caratterizzata, e anche ambiziosa
– come solo il cristianesimo è stato –
di realizzare un progetto mondano/universalistico
visibile ben al di là del fondamentalismo
di al Qaida, possa accettare il
Dio che non ama la violenza, che sceglie la
parola, il “logos” rispetto alle armi. Difficile,
ma non impossibile: dopotutto, nel
momento della sua massima espansione,
l’islam fu tra i più potenti tramiti di diffusione,
confronto e assorbimento di idee e
culture le più varie. Potremmo aspettarci
tale conversione se non per la via della autoriflessione
e del passaggio a una lettura
spiritualistica della jihad, per quella del
confronto con la modernità nella sua
espressione più costruttiva, la democrazia.
I paesi del Maghreb, forse l’Indonesia, vivono
in una condizione di equilibrio tra
islam e democrazia, confuso e precario ma
comunque già attivo e costruttivo di società
e istituzioni accettabili. La contingenza
dello scontro attuale tra l’occidente
(davvero l’“occidente”?) e il fondamentalismo
islamico può mettere in difficoltà questo
processo di pragmatica compenetrazione
tra i due soggetti storici. Ma, nell’impossibilità
di evitare un confronto che è
ineluttabile perché epocale, sarebbe bene
evitare di scatenare guerre ideologico/culturali,
si rischia di sbagliare la mira: l’arabo
Maometto era in fin dei conti discendente
di Ismaele, figlio anche lui di Abramo
e fratello di Isacco, la reciproca convivenza
è anche questione di rispetto delle
Scritture.
Vichiano, appassionato delle “Federalist
Papers” e della loro concezione delle libere
istituzioni, culla di libertà, io poi non
temo i meticciamenti e le compenetrazioni
che in quelle istituzioni possono verificarsi;
anzi ne sono laicamente curioso, mi affascinano
i valori e le identità nuove che
essi portano. Proprio Ratzinger, nel suo
complesso e ricco intervento, ci ricorda come
la fede biblica e l’intellettualità greca
abbiano dato luogo (con il Vangelo di Giovanni
e il suo “In principio era il Logos”) a
un meticciamento dalle conseguenze incalcolabili,
fino ad oggi. C’è una ragione
(una ragionevolezza) intrinseca all’evento
storico, nella sua stessa ineluttabilità:
quella che ci fa restare con il fiato sospeso
quando riflettiamo sul come una casuale
battaglia abbia spesso mutato radicalmente
il corso della storia: è una riflessione
che ha accomunato lo Stendhal de “La certosa
di Parma”, il Tolstoj di “Guerra e pace”
e lo Hawthorne del “Segno rosso del
coraggio”, se non vado errato.
Grazie anche all’impagabile “résumé”
fattone da Giuliano Ferrara, possiamo esattamente
valutare il senso di quella parte
dell’intervento ratzingeriano che è stata lasciata
(volutamente?) nell’ombra dai commentatori,
gettatisi tutti sull’osso della condanna
dell’islam. E’ la parte – la maggior
parte – del discorso, nella quale il Papa
schiaffeggia pesantemente il protestantesimo
con tutta la cultura tedesca derivatane
(lo ha fatto dalla Baviera cattolica! Glielo
perdoneranno i seguaci di Lutero?). Modestamente,
e indegnamente, io questa sua polemica
la condivido solo in parte. Idealista
incallito (sia pur logorato dall’esperienza e
dal dubbio) non credo che, al di fuori e contro
la fede, il mondo moderno offra solo il riduzionismo
di Lutero, Kant, von Harnack,
Karl Barth (e, perché non ricordarlo?,
Bonhoeffer) con i suoi derivati, il positivismo
scientista, il relativismo senza Essere,
la verità senza Dio. Io sono non meno antipositivista
e antiscientista del Papa, ma anche
vichianamente convinto che la riflessione
liberatrice dell’uomo quale si manifesta
storicamente nelle sue istituzioni (specie,
oggi, in quelle democratiche) contenga
una possente carica, un nutrimento di laica
fede che nulla ha da chiedere a chi professa
una fede religiosa (penso, peraltro, che la
laicità sia un comportamento – non una
ideologia – fondato sulla responsabilità).
Secondo me, Papa Ratzinger sente molto
il portato della sua cultura, necessariamente
tedesca. Con questa polemizza, in fin
dei conti. Non mi pare di aver avvertito in
lui preoccupazioni, o almeno attenzione,
per gli sviluppi possibili del cristianesimo
biblista e fondamentalista, specie americano:
che è non-positivista, ma invece positivo
e civico pur parlando di un Dio che solo
nominalisticamente è lo stesso della cattolicità,
del cristianesimo giovanneo e paolino
cui Ratzinger fa riferimento.
Angiolo Bandinelli



Schiaffo? No, ci obbliga a ripensare le radici.

Il discorso tenuto da Ratzinger
a Regensburg è il testo più importante dalla
sua elezione al Soglio Pontificio. Un testo
che potrà contribuire in maniera significativa
affinché l’Europa torni a interrogarsi
sulle sue radici, sulle radici della fede”.
Non ha dubbi Friedrich Schorlemmer,
teologo protestante e direttore didattico
dell’Accademia evangelica Sachsenhausen,
che si trova a pochi passi dalla
cattedrale di Wittemberg, proprio quella
cattedrale sulla quale nel 1517 Lutero affisse
le sue 95 tesi sancendo così la scissione
della chiesa e la nascita del protestantesimo.
E se per il teologo cattolico Eugen
Drewermann, una delle voci più critiche
nei confronti del Vaticano, il viaggio del
Papa in Baviera “non ha segnato alcun
cambiamento” – perché per esempio non
ha parlato del diritto di risposarsi dei divorziati
o del celibato – e soprattutto non
ha “gettato dei veri ponti verso le chiese
protestanti e riformate”, Schorlemmer è di
parere opposto. “Tutto il viaggio è stato segnato
da una chiara volontà di dialogo. Benedetto
XVI ha aperto uno spazio alla ricerca
anziché scegliere l’approccio dogmatico
alla verità ultima. Ha riconosciuto
il valore della ragione ma ne ha tracciato
chiaramente anche i confini, senza alcun
moralismo”. La Germania, i teologi tedeschi,
cattolici e protestanti, si sono lasciati
e continuano a lasciarsi tempo nel rispondere
al discorso pronunciato dal Papa
martedì nell’Aula Magna dell’università
dove lui stesso aveva insegnato per diversi
anni e dove, appunto, un collega aveva sollevato
il dubbio sull’utilità di due facoltà
che si occupavano di qualcosa che non esiste:
Dio. Anche il teologo cattolico Hans
Küng ha rimandato ad altra sede una riflessione
approfondita, sottolineando però
l’elemento principale dell’interesse del
Papa e di questo pontificato: l’essenza, la
verità del cristianesimo e della fede in Dio.
Perché, come aggiunge Schorlemmer “è
fondamentale tornare a interrogarsi sull’ethos.
Non ci può essere morale senza
Dio. Un concetto che Ratzinger ha cercato
di porre in modo molto razionale. Dopo di
che non tutto quello che ha detto mi convince.
Per esempio la sua tesi sulla dis-ellenizzazione.
Cosa intende per coscienza
soggettiva? Si potrebbe parlare anche di
responsabilità personale e il personale
non va discreditato. E comunque sia nemmeno
il Santo Padre può sollevare il singolo
dalla propria coscienza. Si dice ‘extra
ecclesiam nulla salus’ e non ‘non vi è alcuna
salvezza fuori da Roma’”.
Ancora più sorprendenti si sono rivelati
i discorsi e le omelie di Ratzinger per i teologi
tedeschi perché proprio loro non avevano
salutato con entusiasmo la sua elezione
a Papa. In lui vedevano principalmente
l’autore del “terribile, veramente
terribile” – così Schorlemmer – documento
“Dominus Jesus” oltre che il capo della
Congregazione per la fede paragonata tout
court “all’Inquisizione”. “Ma bisogna essere
accecati se non si percepisce il mutamento
nei toni – ammette ora Schorlemmer
– se non si ha il coraggio di riconoscere
che anche il Papa, l’immutabile Uffizio,
può a quanto pare cambiare”.
Che ci sia bisogno di uscire dagli steccati
l’ha sottolineato anche il vescovo delle
chiese luterane in Baviera Johannes
Friedrich. “Per molti protestanti il solo riflettere
sul diritto di esistenza del papato
è sbagliato. Ai loro occhi è il papato il
principale ostacolo a un dialogo ecumenico.
Ma a essere fuorvianti sono, a mio avviso,
proprio questi blocchi e divieti mentali.
Il che non vuol dire però accettare
l’imperativo categorico ‘Roma locuta, causa
soluta!’ Tutt’altro, proprio quando Roma
ha parlato noi protestanti cerchiamo i punti
che potrebbero risultare problematici”.
Ci si interroga ora su cosa abbia originato
questo cambiamento. “Posso solo supporlo
ovviamente – dice Schorlemmer – ma credo
che in Benedetto XVI si sia risvegliato
il professore, il filosofo che è alla ricerca
della verità, come lo siamo tutti noi, e che
non ne dispone ex cathedra. Ha riscoperto
la categoria della ricerca che tocca a tutti
non solo agli altri. Ho trovato interessanti
le sue considerazioni sull’islam, ma soprattutto,
ed è questo a mio avviso il secondo
motivo che l’ha spinto a cercare un
nuovo approccio, la sua convinzione, condivisibilissima,
che le dispute confessionali
sono nulla paragonate alla nostra sordità
al verbo di Dio. Anche se poi diventa di
nuovo prete cattolicissimo quando dice
che ci sono troppi pochi uomini disposti a
servire il Signore, intendendo ovviamente
i preti. Da luterano gli rispondo che anche
un medico, un’ostetrica sono al servizio di
Dio”. Ciò nonostante Schorlemmer è convinto
che la chiesa protestante non solo dovrebbe,
ma deve, cogliere questa proposta
di dialogo lanciata non a caso da Regensburg,
città dove nel 1542 il consiglio comunale
aderì alla confessione protestante
mentre la maggioranza della popolazione
restava cattolica. “Ma soprattutto l’ha tenuto
in Germania culla della Riforma ma
anche del comunismo, patria di Marx, di
Nietzsche e di Einstein, perché è convinto
che il paese che ha dato vita alla scissione
sia anche in grado, attraverso un processo
di riflessione seria, a ritrovare di nuovo
una visione comune”.
Andrea Affaticati


=la cosa=
00mercoledì 20 settembre 2006 20:31
Non credo valga la pena leggerti... (mi è bastato il topic)

[SM=x584474] [SM=x584474] [SM=x584474]
Slobodan
00venerdì 22 settembre 2006 18:04
complimenti!

Scritto da: =la cosa= 20/09/2006 20.31
Non credo valga la pena leggerti... (mi è bastato il topic)

[SM=x584474] [SM=x584474] [SM=x584474]




[SM=x584457] [SM=x584457] [SM=x584457]
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