Mamma mia. Che paura

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ugo.p
00mercoledì 12 settembre 2012 07:02
ecco un topic per raccogliere anedoti, leggende e altri racconti da far tremare i polsi e battere i denti.
Racconti che sicuramente popolano molti dei posti in cui vivete o siamo stati.
Narrate qui le vostre esperienze ESP, le cose che vi hanno turbato, quelle storie che vi hanno raccontato davanti al fuoco nelle buie serate invernali costringendovi poi a dormire con la luce accesa.
so che il GF ne ha una adatta per l'occasione.
Il garfagnin fuggiasco
00sabato 15 settembre 2012 23:34
Ghost.
Londra 10 Settembre 2012.


Carissimi amici,

è da un po’ di tempo che non vi annoio con una delle mie lunghe tiritere su questo o quello e qui e là e sotto e sopra, insomma, ciò che avviene da questa parte del canale. Più che il materiale manca la voglia, lo ammetto, divento pigro e non trovo lo stimolo. Vecchio e rincoglionito … olè.
Ma a volte arriva una mezza idea, la lampadina cerebrale emette qualche vago scintillio, i neuroni, addormentati dalla routine quotidiana, si rimettono faticosamente in moto, le catene associative di pensiero riprendono a serpeggiare e allora … si prova a buttar giù qualche pagina di prosa. Prosa, che di poesia e meglio non farne, l’esperienze passate sono scoraggianti.
Cosicché l’altro giorno, parlando al telefono con un vecchio amico ed ex-collega, mi è tornata in mente una curiosa esperienza di alcuni anni fa che stranamente avevo dimenticato. O forse rimosso, a causa del suo carattere un tantino outrée.
È noto a tutti, anche ai più ignoranti di voi (voglio sperare), che la vecchia Inghilterra è la terra dei fantasmi. Non v’è castello che si rispetti che non ne abbia uno, più o meno antico, e non v’è nobile mansione che non rivendichi qualche tenebrosa presenza. Ma quel che forse non è universalmente risaputo è che anche abitazioni di più modesto livello vantano una lunga tradizione di apparizioni misteriose. Come per esempio i pubs, sui quali si trovano anche diversi libri e guide per chi voglia unire il piacere di una buona birra al brivido dell’aldilà. Moltissimi pubs inglesi hanno il loro spettro casalingo e, specialmente in quelli di provincia, il gestore è sempre contento di erudirvi sulle caratteristiche dell’ectoplasma locale.
La storia che segue racconta di uno di questi …

Dovrò adesso fare una piccola digressione per spiegare come finii a lavorare a Sunbury-on-Thames, una deliziosa cittadina di 23mila abitanti nella contea del Surrey, situata poco più di 25 km a sud-ovest di Londra. Il centro storico di Sunbury, detto Sunbury Village, separato dall’autostrada dalla parte più moderna dell’abitato (una sorta di “Lucca dentro” e “Lucca fuori”, per capirci), si snoda lungo il Tamigi, abbarbicato e quasi aggrappato al fiume come se temesse di perdersi nella campagna. Paradiso di appassionati di canottaggio e ippica, ciclisti della domenica, pescatori e amanti del camping, Sunbury è l’immagine eterna e immutabile dell’Inghilterra provinciale. Le stradine laterali che scendono fino ai porticcioli al livello dell’acqua, le immense querce secolari che cedono il posto ai salici piangenti tra le cui fronde semisommerse scivolano tranquille le anitre, i cottages con la staccionata e il giardinetto pieno di fiori, le casette a schiera vittoriane rigorosamente a due piani più l’attico, le tea-rooms, i club di vela e canottaggio, le chiesette neo-gotiche immerse nel verde e circondate da lapidi ormai illeggibili e dimenticate, le panchine di legno con la targhetta di bronzo che riporta il nome della famiglia che l’ha donata alla comunità, i lunghi viali alberati che vanno verso l’autostrada, delineati da villette con il muretto in pietra, il campo del cricket, i bambini con l’uniforme scolastica in blazer e cravattina, Sunbury è il rifugio di quegli inglesi che preferiscono la dura vita del pendolare durante la settimana per godersi la tranquillità familiare e paesana nel week-end. Chi può biasimarli?

In questo idilliaco villaggio capitai dunque in seguito ad uno dei vari cataclismi che hanno spesso accompagnato, e segnato, le mie vicissitudini in terra anglosassone. In poche parole, la catena di ristoranti per la quale, una decina d’anni fa, lavoravo nella City, in piena ristrutturazione, aveva appena iniziato a “cioppare” (tagliare, dall’inglese “to chop”, p.p. “chopped”: io cioppo, tu cioppi, egli cioppa …) i cosiddetti rami secchi, cioè i ristoranti meno frequentati, tra cui quello dove, mannaggia alla malora, lavoravo io, vicino alla mitica Fleet Street, un tempo sede dei maggiori quotidiani britannici.
Al momento della chiusura definitiva, la compagnia ci diede due alternative: o il “fuori dalle palle tutti assieme” con la buonuscita di legge, o trasferirsi a Sunbury (finché duri) per alcuni mesi, con il compito di tener aperto un altro ristorante, già marcato anche quello per la “cioppatura” e dal quale il personale era già migrato en masse. Ci spiegarono che per poterlo vendere a miglior prezzo, bisognava tenerlo in funzione, con tutte le apparecchiature e le licenze attive. In cambio ci avrebbero dato un bonus aggiuntivo.
Diupatàn, mò vengo anch’io! Cosicché il mio amico Roberto come manager, io come assistente, una giovane e disperata maltese come cameriera e un non più giovane ma ancor più disperato algerino come cuoco, tutti assieme lasciammo temporaneamente la frenesia globalizzante della City per immergersi nella quiete del medio corso del Gran Padre Tamigi, già cantato da Jerome K. Jerome nel suo indimenticabile “Tre uomini in barca”.
Per non parlar del cane …



Il Tamigi a Sunbury.


La vecchia banca sulla strada principale.


Il "centro" del villaggio.


Così un bel mattino d’estate, giunti a Sunbury, dopo 40’ di treno da Waterloo e 20’ di piacevole passeggiata attraverso i sobborghi, prendemmo infine possesso del nostro nuovo, transeunte luogo di lavoro.
Trattavasi (vedere foto in basso) di un edificio della seconda metà dell’800, lugubre e vagamente malinconico. Le colonnine e il timpano classicheggiante alla porta d’ingresso sulla strada principale, ormai sigillata da tempo, e i torreggianti comignoli in disuso, suscitavano una sensazione di cosa pretensiosa ma squallida, come di biancheria intima sporca indossata sotto una gonna inamidata. L’entrata del ristorante, ricavata sul lato destro, dava sul parcheggio e su un grosso cipresso maltenuto. Sul retro stava un cortile chiuso da un alto muro, pieno di erbe e rampicanti. E sul lato sinistro della casa c’era un minuscolo vicolo buio, terminante in un enigmatico e inquietante cul-de-sac.
All’interno si respirava aria di tempi passati. I pavimenti in legno ormai ondulato dai decenni, i soffitti bassi, le cantine in pietra che scendevano sotto il livello del fiume, coperte di muffe e gocciolanti di stalattiti, le scale scricchiolanti, le finestrelle con l’abbaino … bellissimo per me, che adoro la decadenza del vittoriano, ma di sicuro tetro e di certo non l’ambiente migliore per un ristorante e caffè francese qual doveva essere.
Al piano terra v’erano un salone centrale, due salette laterali, il bar e la cucina. Il primo piano, su un lato destro della scala, dando sulla strada principale, v’era una salone per feste e cenoni, mentre sull’altro lato, dando sul retro, si trovavano i servizi e l’ufficio del manager. Nell’attico, infine, erano stati ricavati docce e spogliatoi per il personale.
Insomma, per alcuni mesi quella fu la mia destinazione giornaliera. Fu, onestamente, uno dei periodi più tranquilli e spensierati della mia esistenza. Senza l’assillo di dover fare clienti a tutti i costi, che tanto bastava tener aperto fino a trovare un acquirente, si lavorava rilassati e con tempo a sufficienza per visitare gli angoli sonnolenti e tranquilli della simpatica cittadina.
Ma veniamo al dunque. Cioè, alla storia vera e propria.



La facciata vittoriana della casa e l’ingresso originale,
ormai sigillato e non in uso, che si apriva sulla strada
principale.


L’ingresso del ristorante, ricavato sul parcheggio a lato.
Il cortiletto interno è oscurato dal cipresso.


Un giorno, arrivando al lavoro nel pomeriggio (facevo il turno serale, di chiusura, mentre il mio amico Roberto apriva al mattino), trovai un tecnico che stava controllando il sistema antifurto collegato a tutte le porte e finestre del locale. Il manager mi spiegò come al mattino avesse trovato la polizia davanti al locale, allertata verso l’alba dall’allarme. I poliziotti avevano controllato ogni apertura, trovandole però tutte chiuse. Una volta arrivato, Roberto aveva aperto la porta e, assieme ai solerti bobbies locali avevano rovistato tutto l’edificio, incluse soffitte e cantine, senza trovar traccia d’intrusi. Pure, porte e finestre non mostravano segni di scasso ed erano perfettamente intatte.
Il tecnico investigò per un po’ di tempo, alquanto perplesso, borbottando a tratti. Infine s’arrese e ci presentò il risultato dei suoi controlli. Porte e finestre, comprese quelle degli abbaini, non erano state disturbate. Il punto di rottura del circuito era invece uno dei raggi “sparati” attraverso le stanze da piccole scatolette installate agli angoli del soffitto e che si incrociavano in vari punti delle sale. Precisamente, si trattava di quello che passava per la scala di accesso al primo piano. Qualcuno, muovendosi all’interno, era passato davanti all’invisibile raggio, interrompendo il circuito.
Gli facemmo notare che, essendo tutte le entrate ermeticamente chiuse dall’interno, nessuno avrebbe potuto entrare durante la notte. Se mai c’era stato qualcuno, doveva essersi fatto rinchiudere dentro di nascosto la sera prima e quindi doveva esser sempre li al mattino. D’altro canto, la polizia non aveva trovato nessuno, pur avendo rovistato ogni angolo. Prospettammo l’ipotesi che si fosse trattato di un topo (ce n’erano parecchi, purtroppo) ma il tecnico rise alla sola idea. Se ciò fosse possibile, ci disse, gli allarmi salterebbero ogni minuto. I raggi vengono puntati infatti ad altezza d’uomo, proprio per evitare tale inconveniente. Nemmeno un cane o un gatto potevano causare l’allarme e del resto non vi erano nel ristorante né cani né gatti. Chiedemmo allora se per caso il sistema non fosse difettoso ma il tipo si adontò. Aveva, disse, controllato ogni congegno, filo e segnale tre volte e tutto era in perfetto ordine. E del resto l’impianto era nuovissimo, installato da poco tempo. Case unsolved, Watson.
Andatosene lo stizzito tecnico, scherzammo un po’ sull’affidabilità della tecnologia moderna e poi tirammo innanzi. Ne avrei più dato importanza all’avvenuto se non fosse stato per un piccolo incidente che mi capitò, un paio di settimane più tardi, e del quale è ora di raccontare.

Era, non sembri cattiva letteratura o cliché, una serata d’inverno, freddissima e con un vento rabbioso che spirava dal fiume. La luna splendeva aldilà del parcheggio deserto, sopra il cipresso, la cui ombra lunghissima si muoveva a tratti sotto le folate. Il ristorante era vuoto e non v’era un’anima in giro, cosicché decisi di chiudere un po’ in anticipo, verso le nove. Partito il personale, chiusi a chiave la porta e mi ritirai al primo piano, nell’ufficio, a far i conti della giornata. L’ufficio era una minuscola stanzetta sul retro, ricavata dalla partizione di quella che originariamente era probabilmente una camera. Porta cigolante, pavimento cedevole, finestre piene di spifferi, sibili d’ogni genere. Ogni tanto la porta della stanza, a cui davo di spalle stando seduto alla scrivania, sbatteva sommessamente per qualche sbuffo di vento. Ordinaria amministrazione in queste case centenarie.
Ad un certo punto sento il campanello suonare alla porta del ristorante (non sapevo nemmeno che funzionasse). Infastidito, scendo per far notare all’incauto che siamo chiusi e c’è persino il cartello affisso all’uscio e tutte le luci del pianterreno sono spente, che ci vuole a capirlo?
Apro e mi trovo davanti, nel buio, un nano. Cioè, no, era piuttosto una vecchietta incartapecorita ma vivace e spiritata. La tipica vecchietta inglese, piena di pizzi e trine, il cappellino, il cappotto attillato, l’ombrello e l’immancabile borsetta. Un incrocio tra Miss Marple e “Arsenico e vecchi merletti”, per intenderci.
Le comunico ufficialmente che siamo chiusi ma lei risponde che non era venuta per il ristorante ma per vedere il vecchio pub che credeva vi fosse al suo posto. Le dico che il pub non c’è più dai tempi in cui i Beatles non erano ancora baronetti o giù di lì ma lei puntualizza che nemmeno il pub era il suo interesse principale quanto piuttosto l’edificio stesso, la cui descrizione originale, quando era ancora residenza privata, aveva trovato in un libro a proposito di ….
Irritato alquanto, la invito a entrare, annunciando al tempo stesso di non potermi trattene a lungo, dovendo finire i conti e correre a prendere l’ultimo treno per Londra ma lei insiste, dice che è venuta apposta dal Dorset per vedere alcuni edifici particolari, insomma, s’infiltra nel locale e non c’è verso di farla desistere.
La signora comincia e guardarsi attorno, leggendo di tanto in tanto dal libro in questione, mi fa alcune domande, poi chiede di vedere le stanze al primo piano. Mentre saliamo, le fo’ notare che, tra le ristrutturazioni effettuate dal pub prima e dal ristorante poi, la planimetria originale sarà mutata alquanto ma lei, sicurissima, dice che “la finestra” c’è sempre e si vede bene dal retro.
A questo punto, incuriosito, mi fermo a metà scala, mi volto e le chiedo: “Scusi, ma che finestra?” “Quella dell’ombra.”, fa lei. E io, “Quale ombra?”
La signora mi fa vedere allora il libretto che tiene in mano. “Haunted pubs in Surrey”, edizioni vattelappesca, esemplare d’anteguerra. Apre alla pagina rilevante e legge una vecchia storia, della fine dell’800, quando la casa appunto era abitazione privata. La storia di una sventurata donna uccisa a coltellate, in una terribile notte d’inverno, dal marito impazzito per una lite e poi fuggito e scomparso per sottrarsi alla giustizia, di una stanza letteralmente inzuppata di sangue, di un corpo sfigurato oltre ogni comprensione, della casa rimasta disabitata e in seguito adibita a pub, di un’ombra che da allora si aggira di tanto in tanto su e giù per l’edificio al lume di una minuscola candela e del profilo di una donna in vestaglia che a tratti si nota dalla finestra, “quella” finestra, in un alone di luce tremolante, una mano sul volto, avanti e indietro, avanti e indietro …
Nel frattempo raggiungiamo il pianerottolo, lei volta a sinistra, segue il corridoio e annuncia trionfante: “Ecco, la stanza deve esser per forza quella!”, e si precipita alla soglia. La seguo in silenzio. Sono rassegnato e preparato. Un ragno mi si arrampica lungo la schiena ma forse è un’impressione. Non ho nemmeno bisogno si guardare, l’intuito me lo ha già detto.
È la porta dell’ufficio.

La vecchietta, tutta contenta e soddisfatta, se ne va dopo una mezz’ora di ricerche e misurazioni, interrotte da solitari commenti sulla storia del “fantasma”, che non ho la forza d’interrompere. L’ascolto in silenzio, poi la faccio uscire e mi ritrovo da solo. Salgo di nuovo all’ufficio e lo guardo per la prima volta. Quelle depressioni antiche sul legno dell’impiantito, di certo sono i segni delle gambe del letto dove la poveretta fu così barbaramente uccisa? E quelle macchie scolorite tra un’asse e l’altra, ormai assorbite dal legno, è possibile che non siano sangue? E quella profonda incisione nell’intelaiatura della finestra, non è forse dove il coltello fu trovato, piantato con forza inaudita?
Nell’angolo opposto alla scrivania c’è una vecchia stufa di ghisa poggiata su tre supporti a zampa di leone. L’unico pezzo di mobilia originale rimasto. Forse ardeva allegramente quella sera fatale. La guardo con più attenzione. Il tubo che giunge al soffitto, pure di ghisa, è rotto a metà, le due parti tenute assieme da una banda di metallo rugginoso fissato da rivetti. Fu forse spezzato durante la terribile colluttazione, la vittima cercando inutilmente riparo nell’angolo dalla furia del folle? O forse fu durante una precedente lite dell’infelice matrimonio?
La porta alle mie spalle sbatte ancora dolcemente. L’ha fatto centinaia di volte nel corso dei mesi ma questa volta mi fa sobbalzare. Guardo fuori dalla finestra e m’immagino di essere nel cortile dell’abitazione di fronte. Si vedrà l’ombra di una donna in vestaglia dall’altro lato?

L’orologio alla parete segna ormai le undici. Ho divagato troppo. L’ultimo treno parte tra poco, non ce la farei mai a raggiungere la stazione. Il prossimo passerà alle sei domattina. Sette ore di notte in una casa deserta.
Sperando che lo sia davvero, deserta.
Mi metto il cappotto ed esco nella strada vuota. A quest’ora d’inverno, a Sunbury, non v’è anima in giro. I pub locali sono chiusi da poco, se mai v’era qualche avventore. Passeggio lungo il Tamigi, le raffiche mi tagliano in due, come schegge di vetro impazzite. Le fronde dei salici piangenti frustano l’acqua senza sosta. Le anatre non vi troverebbero riparo adesso. La sigaretta brucia come un tizzone in una fornace e si consuma da sola in poco tempo ma tanto ne accenderò un’altra. Rientro dopo mezz’ora, quando il freddo ormai mi sta congelando. Che almeno i brividi siano dovuti al gelo, quello è reale!
Passo la notte seduto sul divano di una delle salette, le luci del ristorante accese e i vicini pensino quel che vogliono. Il whisky non manca e nemmeno il tabacco. Non immaginavo che si potessero sentire tanti rumori strani in una casa deserta di notte, ma pure li sento. È il vento, naturalmente, quindi non farvi caso e riempire il bicchiere. Fortuna c’e’ quello …
Ripenso all’incidente di qualche settimana prima, l’allarme, porte e finestre sigillate, nessuno in casa … possono interrompere un circuito i fantasmi? Come lo spiegherebbero quelli che credono al paranormale? Forse con la volontà, caparbia e disperata, di continuare ad attrarre l’attenzione su un crimine rimasto impunito? Spettri vittoriani e tecnologia post-industriale, un cocktail da far girar la testa. Mettici più ghiaccio, Manny, il Talisker Single Malt è una brutta bestia …
Verso le tre si ferma l’auto della polizia. Vengono a guardare dalla finestra. Apro e li rassicuro, ho solo perso l’ultimo treno, devo pernottare qui. Non sembrano convinti, fanno domande. Alla fine mi girano le scatole e gli chiedo se sono disposti a darmi loro un passaggio fino a Waterloo oppure se stanno solo menandola per aver un drink a sbafo. Sorridono e se ne vanno ma so che ripasseranno varie volte a controllare discretamente dalla piazzale del parcheggio. Meglio così, mi sentirò meno solo.

All’alba, esausto, con i nervi sfilacciati, esco finalmente per andare alla stazione. Il tempo è peggiorato, il vento ha portato le nuvole. Tipiche nuvole inglesi. Basse, gonfie, grigie, opprimenti. Non un raggio di sole le attraversa. Come un sudario. Sarà stato un mattino d’inverno così, triste e malinconico, quando il corpo straziato della poveretta fu portato fuori in barella dai bobbies, con i becchini in tuba, code e guanti grigi già pronti a portarla all’obitorio su un carro a cavalli?
Guardo la massa scura della casa, come se non l’avessi mai vista. Più lugubre di un sepolcro, e non c’è forse un cipresso? Ma no, via, sono solo sensazioni. Nel pomeriggio sarò di nuovo qui, per il turno serale. Le impressioni ingannevoli dell’ultima notte lasceranno il posto alla realtà d’ogni giorno. Il razionale prevarrà, com’è giusto e naturale che sia. Tutto sarà come prima.

No, non proprio tutto.

Perché prima di uscire ho cambiato posto alla scrivania.

D’ora in poi, la sera, da solo in ufficio, non volterò le spalle alla porta …



Manny


P.S. Pochi mesi dopo questi avvenimenti, il locale fu venduto ed è adesso un ristorante indiano di grido. Io e Roberto ci separammo dopo molti anni di lavoro assieme e trovammo impiego in compagnie diverse. Di apparizioni nel locale non v’è stata più notizia. Forse la poveretta ha trovato pace, nonostante l’orrendo e per sempre impunito crimine di cui fu vittima? O sarà stato l’odore pungente ed alieno del curry, così diverso da quello tradizionale delle apple-pies, a farla migrare altrove? Non so. Ma in un pub di Sunbury, il gestore dice che qualcuno giura d’aver visto un’ombra bianca che a volte passeggia lungo il Tamigi …



Il retro della casa, con il muro di divisione. Il gabbiotto
con finestra che si vede al centro è un’aggiunta recente
e contiene i servizi del ristorante. In origine v’era una
finestra contigua a quella a destra nella foto.


La finestra sopravvissuta della camera da letto, ora ufficio del
ristorante, attraverso la quale si dice la sagoma in vestaglia di
una donna apparisse a volte alla luce di una candela …

ugo.p
00domenica 16 settembre 2012 06:41
Menny
scrivi una volta ogni morte di Papa ( qualcuno si tocchera' i c.....ni [SM=x875370] ).
ma quando lo fai, ti fai perdonare per le lunghissime assenze.
[SM=x875377]
jules maigret
00lunedì 17 settembre 2012 11:03
GF
sei un racconta storie fantastico.
a leggerlo mi sembrava d'esserci anche a me......e
MAMMA MIA CHE PAURA!!! [SM=x875440]
in effetti la casa un tantinello sinistra lo era già all'aspetto, sapendo poi quello che hai saputo. GULP [SM=x875441]
labandadeglionesti
00martedì 18 settembre 2012 17:29
[SM=x875377]
me lo sono veramente gustato.
ribadisco il giudizio del commissario.
sei un ottimo cantastorie. [SM=x875377]
bibba
00mercoledì 19 settembre 2012 12:05
mai fuggiasco
fu più completo e affabulante!
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