Benedetto XVI ai Teologi: siate OBBEDIENTI senza rinunciare alla ricerca

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Caterina63
00venerdì 5 dicembre 2008 18:12
Legge morale naturale, Benedetto XVI detta la linea ai teologi: “Siate obbedienti nella Fede e liberi nella ricerca”

CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI ha voluto ribadire "la necessita' e l'urgenza, nel contesto odierno, di creare nella cultura e nella societa' civile e politica le condizioni indispensabili per una piena consapevolezza del valore irrinunciabile della legge morale naturale". L'esortazione e' stata rivolta dal Papa alla Commissione Teologica Internazionale, impegnata su sua richiesta nella preparazione di un documento sul tema della legge naturale. "Anche grazie allo studio che avete intrapreso su questo argomento fondamentale, risultera' chiaro - ha aggiunto il Pontefice - che la legge naturale costituisce la vera garanzia offerta ad ognuno per vivere libero e rispettato nella sua dignita' di persona, e per sentirsi difeso da qualsivoglia manipolazione ideologica e da ogni sopruso perpetrato in base alla legge del piu' forte".

"La virtu' fondamentale del teologo e' cercare l'obbedienza alla fede, che lo rende collaboratore della verita': in questo modo - ha affermato il Papa - non accadra' che egli parli di se stesso; interiormente purificato dall'obbedienza alla verita', arrivera' invece a far si' che la verita' stessa possa parlare in lui e l tempo stesso otterra' che, per suo tramite, la verita' possa essere portata al mondo". Per Benedetto XVI, pero', "l'obbedienza alla verita' non significa rinuncia alla ricerca e alla fatica del pensare". "L'inquietudine del pensiero, che indubbiamente non potra' mai essere nella vita dei credenti del tutto placata, dal momento che sono anch'essi nel cammino della ricerca e dell'approfondimento della Verita', sara' tuttavia - ha rimarcato il Pontefice - un'inquietudine che li accompagna e li stimola nel pellegrinaggio del pensiero verso Dio, e risultera' cosi' feconda". Da qui l'auspicio che la Commissione Teologica possa "riportare alla luce gli autentici principi e il significato solido della vera teologia, cosi' da percepire e comprendere sempre meglio le risposte che la Divina Rivelazione ci offre e senza le quali non possiamo vivere in modo sapiente e giusto".

La legge naturale garanzia
contro manipolazioni e soprusi sull'uomo

"La legge naturale costituisce la vera garanzia offerta a ognuno per vivere libero e rispettato nella sua dignità di persona". Lo ha ribadito Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti alla sessione plenaria della Commissione Teologica Internazionale, ricevuti in udienza nella mattina di venerdì 5 dicembre, nella Sala dei Papi.



Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Professori,
cari Collaboratori,
è con vera gioia che vi accolgo al termine dei lavori della Vostra annuale Sessione Plenaria, che, questa volta, coincide anche con la conclusione del settimo quinquennio dalla creazione della Commissione Teologica Internazionale. Desidero innanzitutto esprimere un sentito ringraziamento per le parole di omaggio che, a nome di tutti, Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, in qualità di Segretario Generale della Commissione Teologica Internazionale, ha voluto rivolgermi nell'indirizzo di saluto. Il mio ringraziamento si allarga, poi, a tutti Voi che, nel corso del quinquennio, avete speso le vostre energie in un lavoro veramente prezioso per la Chiesa e per colui che il Signore ha chiamato a svolgere il ministero di Successore di Pietro.

Di fatto, i lavori di questo settimo "quinquennio" della Commissione Teologica Internazionale hanno dato già un frutto concreto, come Mons. Ladaria Ferrer ha ricordato, con la pubblicazione del documento "La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo", e si apprestano a raggiungere un altro importante traguardo con il documento "Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale", che deve essere ancora sottoposto agli ultimi passi previsti dalle Norme degli Statuti della Commissione, prima della definitiva approvazione. Come ho avuto modo già in precedenti occasioni di affermare, ribadisco la necessità e l'urgenza, nel contesto odierno, di creare nella cultura e nella società civile e politica le condizioni indispensabili per una piena consapevolezza del valore irrinunciabile della legge morale naturale. Anche grazie allo studio che Voi avete intrapreso su questo argomento fondamentale, risulterà chiaro che la legge naturale costituisce la vera garanzia offerta ad ognuno per vivere libero e rispettato nella sua dignità di persona, e per sentirsi difeso da qualsivoglia manipolazione ideologica e da ogni sopruso perpetrato in base alla legge del più forte. Sappiamo tutti bene che in un mondo formato dalle scienze naturali il concetto metafisico della legge naturale è quasi assente, incomprensibile. Tanto più, vedendo questa sua fondamentale importanza per le nostre società, per la vita umana, è necessario che sia di nuovo riproposto e reso comprensibile nel contesto del nostro pensiero questo concetto: il fatto, cioè, che l'essere stesso porta in sé un messaggio morale e un'indicazione per le strade del diritto.

Riguardo poi al terzo tema, Senso e metodo della Teologia, che è stato in questo quinquennio Vostro particolare oggetto di studio, mi preme sottolineare la sua rilevanza e attualità. In una "società planetaria" com'è quella che oggi va formandosi, ai teologi viene chiesto dall'opinione pubblica soprattutto di promuovere il dialogo tra le religioni e le culture, di contribuire allo sviluppo di un'etica che abbia come proprie coordinate di fondo la pace, la giustizia, la difesa dell'ambiente naturale. E si tratta realmente di beni fondamentali. Ma una teologia limitata a questi obiettivi nobili perderebbe non solo la sua propria identità, ma il fondamento stesso di questi beni. La prima priorità della teologia, come indica già il suo nome, è parlare di Dio, pensare Dio. E la teologia parla di Dio non come di una ipotesi del nostro pensiero. Parla di Dio perché Dio stesso ha parlato con noi. Il vero lavoro della teologia è entrare nella parola di Dio, cercare di capirla per quanto possibile e di farla capire al nostro mondo, e trovare così le risposte alle nostre grandi domande. In questo lavoro appare anche che la fede non solo non è contraria alla ragione, ma apre gli occhi della ragione, allarga il nostro orizzonte e ci permette di trovare le risposte necessarie alle sfide dei diversi tempi.

Dal punto di vista oggettivo, la verità è la Rivelazione di Dio in Cristo Gesù, che richiede come risposta l'obbedienza della fede in comunione con la Chiesa e il suo Magistero. Recuperata così l'identità della teologia, intesa come riflessione argomentata, sistematica e metodica sulla Rivelazione e sulla fede, anche la questione del metodo viene illuminata. Il metodo in teologia non potrà costituirsi solo in base ai criteri e alle norme comuni alle altre scienze, ma dovrà osservare innanzitutto i principi e le norme che derivano dalla Rivelazione e dalla fede, dal fatto che Dio ha parlato.
Dal punto di vista soggettivo, cioè dal punto di vista di colui che fa teologia, la virtù fondamentale del teologo è di cercare l'obbedienza alla fede, l'umiltà della fede che apre i nostri occhi: questa umiltà che rende il teologo collaboratore della verità. In questo modo non accadrà che egli parli di se stesso; interiormente purificato dall'obbedienza alla verità, arriverà invece a far sì che la Verità stessa, che il Signore possa parlare tramite il teologo e la teologia. Al tempo stesso otterrà che, per suo tramite, la verità possa essere portata al mondo.

D'altra parte, l'obbedienza alla verità non significa rinuncia alla ricerca e alla fatica del pensare; al contrario, l'inquietudine del pensiero, che indubbiamente non potrà mai essere nella vita dei credenti del tutto placata, dal momento che sono anch'essi nel cammino della ricerca e dell'approfondimento della Verità, sarà tuttavia un'inquietudine che li accompagna e li stimola nel pellegrinaggio del pensiero verso Dio, e risulterà così feconda. Auspico pertanto che la Vostra riflessione su queste tematiche giunga a riportare alla luce gli autentici principi e il significato solido della vera teologia, così da percepire e comprendere sempre meglio le risposte che la Parola di Dio ci offre e senza le quali non possiamo vivere in modo sapiente e giusto, perché solo così si apre l'orizzonte universale, infinito della verità.

Il mio grazie per il vostro impegno e la vostra opera nella Commissione Teologica Internazionale durante questo quinquennio è quindi, nello stesso tempo, un augurio cordiale per il lavoro futuro di questo importante organismo a servizio della Sede Apostolica e della Chiesa intera. Nel rinnovare l'espressione di sentimenti di soddisfazione, di affetto e di gioia per l'odierno incontro, invoco dal Signore, per intercessione della Vergine Santissima, copiosi lumi celesti sul Vostro lavoro e di cuore Vi imparto una speciale Benedizione Apostolica, estensibile alle persone care.



(©L'Osservatore Romano - 6 dicembre 2008)
Caterina63
00lunedì 22 dicembre 2008 17:52

Chiarimenti sul concetto di TEOLOGIA....
leggere anche qui:

Il Dio Cattolico o...un Dio qualunque?[SM=g1740721]

teologìa
s.f. (gr. theós, dio e lógos, discorso). Scienza relativa a Dio o agli dei, o più in generale alla religione.  In senso cristiano, scienza della divinità e dei suoi rapporti con le creature, sulla base della Rivelazione.



Il termine teologia tardò a entrare nella tradizione cristiana per le sue origini profane e filosofiche. A partire dal III sec. fu accolto nel pensiero cristiano orientale; nella Chiesa d'Occidente, invece, di teologia nel senso moderno, come scienza sistematica sulla divinità, parlò per primo, in pieno medioevo, Abelardo e solo nel XIII sec. servì a indicare il complesso della speculazione sulle verità rivelate. In Oriente la teologia indicò inizialmente la riflessione su Dio in se stesso, cioè sulla natura e le persone divine, e si distingueva quindi per esempio dalla "cristologia"; essa ebbe grande sviluppo in conseguenza delle dispute trinitarie, anche per lo sforzo di definire una dottrina ortodossa rispetto alle tendenze eretiche. Sempre in Oriente fu introdotta la distinzione fra teologia affermativa, relativa a ciò che si può dire di Dio, e teologia negativa, che definisce ciò che Dio non è (come la teologia mistica dello pseudo-Dionigi l'Areopagita alla fine del V sec.).

In seguito la teologia, intesa unitariamente come la scienza dei misteri divini fondata sulla Rivelazione e la fede, si distinse, in rapporto al suo oggetto, in teologia dogmatica (relativa ai dati di fede) e morale (relativa all'agire umano diretto al suo fine ultimo, conosciuto mediante la Rivelazione e conseguibile mediante la Grazia); e, in rapporto ai suoi metodi, in teologia positiva(relativa alle fonti della Rivelazione: teologia biblica, patristica, ecc.) e speculativa (che attraverso l'uso della ragione, e con il sussidio della filosofia, dimostra la coerenza dei misteri cristiani, integrando deduttivamente i dati rivelati). La teologia speculativa non deve confondersi con l'apologetica, che tende a dimostrare la razionalità della fede cristiana, né può identificarsi con una qualsiasi filosofia religiosa, sostituentesi alla Rivelazione (come accadde alla gnosi): essa resta invece sotto la luce e nei limiti della fede ("fides quaerens intellectum" fu definita nel medioevo).


La teologia, dunque, come riflessione globale sul mistero cristiano, è implicita nelle origini stesse del cristianesimo: perciò oggi sì parla correntemente di una teologia del Vangelo di san Matteo, di una teologia di san Paolo, ecc. Ma furono soprattutto l'incontro del cristianesimo con la filosofia greca e il superamento dei primitivi sospetti verso la cultura classica (incarnati per esempio da Taziano) a favorire la prima riflessione teologica (Giustino, Ireneo). Ben presto si formarono in Oriente due grandi scuole teologiche: quella di Alessandria, più legata alla tradizione platonica e neoplatonica di Filone, tendente a un'interpretazione allegorica delle Scritture (Clemente e Origene nel III sec.; Atanasio nel IV; Cirillo di Alessandria nel V); quella di Antiochia, più razionalistica (illustrata da Giovanni Crisostomo), cui si collegarono i Padri cappadoci del IV sec., come Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Tutta questa ricerca ebbe impulso decisivo dal sorgere delle eresie trinitarie e cristologiche d'Oriente, e si riversò nelle definizioni dogmatiche dei primi sette concili ecumenici (secc. IV -VIII).

In Occidente, dov'era meno sensibile e diretto l'influsso della cultura greca e orientale, sorse solo alla fine del II sec. il primo teologo originale: Tertulliano. Successivamente Agostino, sulle orme di Ambrogio, riprese e sviluppò in maniera originale i grandi temi della teologia orientale, grazie anche alla conoscenza diretta e approfondita della filosofia platonica. Le vicende dell'Impero, mentre precipitavano l'Occidente nella barbarie, isolandolo dall'Oriente e lasciandolo a lungo sotto l'influenza della grande sintesi agostiniana, favorirono a Costantinopoli lo sviluppo della teologia, con Massimo il Confessore (VII sec.), Giovanni Damasceno (VIII sec.), Simeone il Nuovo Teologo (intorno al 1000). Chiusasi ormai da tempo la grande epoca patristica, la rinascita carolingia d'Occidente vide anche il rifiorire degli studi teologici (Alcuino, Rabano Mauro, ecc.).

Con l'XI e il XII sec. (Anselmo e Abelardo) iniziò l'epoca della scolastica, cioè della teologia sistematica, che non si limitava più a raccogliere le sentenze dei Padri ma si cimentava nell'organizzare un discorso teologico secondo le regole della dialettica (scuola di san Vittore; Libri quattuor sententiarum di Pietro Lombardo: sintesi teologica di tipo platonico-agostiniano). Ma specialmente la riscoperta delle opere di Aristotele, introdotte in Europa dagli Arabi, condizionò lo sviluppo di nuove sintesi teologiche (secc. XIII, XIV). Ancora una volta si delinearono due scuole: quella domenicana, che più direttamente si rifaceva ad Aristotele, culminante in san Tommaso d'Aquino, scolaro di Alberto Magno, e nel cui insegnamento la Chiesa cattolica riconobbe successivamente l'esposizione più chiara e completa delle proprie verità; e quella francescana, di tendenza mistica e platonica, culminante in san Bonaventura e Duns Scoto.


La Riforma protestante, iniziata da un agostiniano come Lutero, favorì per contraccolpo le tendenze tomistiche nella teologia cattolica, che peraltro si vide impegnata nella definizione, in senso controversistico (Bellarmino), delle verità e dei dogmi messi in discussione dai protestanti: fonti della Rivelazione, Grazia e libero arbitrio, sacramenti. Nascevano nuove scuole teologiche, come quella gesuitica (Molina), che poneva l'accento sulla libertà umana, rispetto al rigido predestinazionismo del protestanti.

Tutta questa fioritura teologica aveva fatto la sua prima prova al concilio di Trento dove peraltro si erano avute le prime avvisaglie dei contrasti che avrebbero diviso la teologia cattolica nel secolo successivo. D'altra parte lo stimolo rappresentato dalla Riforma favorì la specializzazione della ricerca teologica, con lo sviluppo dell'esegesi (Cornelio a Lapide), della metodologia (Melchor Cano), della patrologia (D. Petau); lo studio e il commento di san Tommaso caratterizzarono altresì la tarda scolastica spagnola, che produsse in quest'epoca, con Francesco da Vitoria e F. Suárez alcune delle più complete sistemazioni della teologia. Mentre infuriavano nei secc. XVII e XVIII le grandi dispute ecclesiologiche e sulla Grazia, provocate dal sorgere del giansenismo e dalla contrapposizione tra le scuole agostiniane, tomiste e gesuitiche, assunse particolare rilievo la teologia morale (culminante nell'opera di Alfonso M. de' Liguori) e ancor prima la teologia spirituale dei grandi misticì spagnoli e francesi, che rifuggivano dalla sistematicità razionalistica delle scuole.

Una nuova ricchezza di elaborazione teologica vide il XIX sec., parallelamente alla fioritura della cultura romantica e alla rinascita religiosa successiva alla Rivoluzione francese. Sotto l'influsso delle moderne tendenze filosofiche e storiche si svilupparono nuove scuole, che suscitarono i sospetti di Roma: il tradizionalismo, l'ontologismo, il rosminianesimo; soprattutto rinacque la teologia positiva e storica, con Möhler, Migne, Hefele, e sorse la teoria dello sviluppo estrinseco dei dogmi, con Newman. La seconda metà del secolo fu però caratterizzata dalla riscoperta di san Tommaso e della scolastica (neotomismo e neoscolastica), che contraddistinse in special modo la scuola teologica romana (Liberatore, Cornoldi); questa mostrò di prevalere nelle definizioni del concilio Vaticano I (1869-1870). Una sanzione e un impulso particolari alla rinascita tomista nella teologia vennero dati dall'enciclica di Leone XIII Aeterni Patris (1879).


Proprio contro la neoscolastica si schierò invece quel complesso tentativo di rinnovare la teologia cattolica secondo più moderne tendenze filosofiche, scientifiche, storiche, che prese il nome di modernismo e che venne condannato dalla Chiesa (enciclica Pascendi, 1907) come affetto da storicismo, soggettivismo e relativismo. La polemica sul modernismo all'inizio del XX sec. sembrò per qualche tempo ostacolare le esigenze di novità anche in campo teologico: ma le tragiche vicende storiche in cui si trovarono coinvolti i cristiani di questo secolo, i più stretti rapporti con altre confessioni (movimento ecumenico) e con il cristianesimo orientale, l'impetuoso sviluppo dell'esegesi biblica, la gravità dei problemi sociali contemporanei, l'imporsi della scienza e della tecnica a tutti i livelli, hanno condizionato altri rinnovati tentativi di reintegrare in una visione teologica più attuale le verità tradizionali del cattolicesimo.

Il diretto riferimento alle fonti scritturali e patristiche (H. de Lubac, Daniélou) ha permesso di superare l'intellettualismo e lo schematismo di certa tradizionale teologia, nutrendo le nuove correnti di una problematica spirituale più legata ai grandi temi del mondo moderno: evoluzione e storia, persona e società, esistenza e libertà. In Francia (Teilhard de Chardin, Congar), in Germania (Rahner), in Olanda (Schillebeeckx), si è venuta così preparando quella rinascita teologica che è sfociata in modo talora clamoroso nel concilio Vaticano II e in taluni documenti le cui arditezze innovatrici sarebbero state del tutto impensabili solo mezzo secolo prima (Nuovo catechismo olandese).


Gli orientamenti successivi della teologia sono nati all'insegna della cosiddetta "svolta antropologica" (K. Ralmer). Dopo essersi qualificata come discorso (scienza) dell'uomo su Dio, la teologia preferisce porsi come scienza del discorso di Dio sull'uomo. Dalla scelta antropologica alla teologia della prassi il passo fu breve: se la teologia si assumeva il compito di presentare organicamente il progetto d'uomo che nasce dalla fede in Dio, non poteva esimersi dal descrivere le linee fondamentali a cui il credente deve ispirarsi nel programmare e nel costruire la storia. A un primo periodo euforico che ha visto nascere diverse teorizzazioni teologiche dell'impegno umano per la storia (teologia della speranza [J. Moltmann], teologia del mondo [J. B. Metz], teologia della liberazione [G. Gutiérrez], teologia politica, ecc.) ha fatto seguito una teologia più critica.


La fede sottolinea la necessità dell'impegno del credente per la programmazione della storia, ma riconosce con altrettanta chiarezza che la salvezza è dono di Dio che trascende la storia stessa. Da qui, mediante il recupero del valore della contemplazione e dell'ascolto della parola di Dio, è nata una teologia che ama qualificarsi "estetica" e "ludica": estetica perché fondata sulla visione contemplativa più che speculativa della realtà (H. U. von Balthasar), ludica perché guidata dal senso della gratuità che vuole opporsi all'efficientismo contemporaneo (K. Rahner). La teologia si è anche posta come "a-logia = silenzio" e qua e là fa capolino la tesi che la teologia ha ormai finito la sua funzione e deve fare spazio esclusivamente alla fede.

I più recenti sviluppi della teologia cattolica sono conosciuti come "teologia della Croce". Dopo le acquisizioni dei decenni scorsi, con cui la teologia aveva cercato di fondare l'impegno cristiano nella storia (teologia politica) e la sua tensione dinamica verso il futuro (teologia della speranza), la riflessione teologica intende porre l'accento sulla specificità cristiana dell'impegno e della tensione storica.

Il mistero della croce di Cristo, preso in considerazione nella prospettiva del Vangelo di Giovanni che parla della croce come "gloria di Dio", segna l'orizzonte del sapere cristiano. La croce, senza perdere la sua emblematicità per una corretta interpretazione della sofferenza e del sacrificio in ordine alla salvezza, diventa la più specifica manifestazione del modo cristiano di intendere il rapporto "trascendenza-storia". Dio manifesta la sua trascendenza non dominando o manipolando la storia dell'uomo, ma in una scelta di condivisione e di donazione amorosa. Ne deriva che l'impegno cristiano per il progresso storico deve qualificarsi come sforzo per l'affermazione e la crescita della sfera dell'essere (dignità e libertà della persona) più che della sfera dell'avere(progresso scientifico, tecnico, economico). Anzi, l'unico e più sicuro criterio di verifica dell'autenticità della crescita nella sfera dell'avere sta nella sua capacità di risolversi in una promozione della sfera dell'essere.



v
Teologia protestante

§ Martin Lutero

§ Giovanni Calvino

§ Le 95 tesi


Una definizione unitaria e univoca della teologia protestante risulta molto problematica se non ci si rifà al principio della Sacra Scrittura come unica forma di fede. Su questa base Lutero, Zwingli, Calvino elaborarono proprie dottrine teologiche, lontane tra loro su molti punti, come per esempio nelle questioni sacramentarie. I protestanti, tuttavia, come ribadì la Confessione d'Augusta del 1530, ritennero di non sostenere nulla di contrario "alla Scrittura o alla Chiesa universale" e di situarsi correttamente nella linea teologica dei primi grandi concili ecumenici (simbolo di Nicea e di Atanasio). In effetti, benché la Riforma fosse sorta proprio come reazione allo scolasticismo medievale in nome di un ritorno alla teologia della Bibbia e in special modo paolina, non tardò essa stessa a dar luogo a una scolastica protestante, frutto delle controversie sorte nel suo seno (dispute nel luteranesimo tedesco e nel calvinismo olandese) e della inevitabile rielaborazione dei grandi princìpi fissati dai padri del movimento riformato. D'altronde si manifestò, fin dalle origini, una corrente teologica più radicale che non esitò a sottoporre a critica la stessa dottrina trinitaria (antitrinitari
) e ad applicare il principio razionalistico del libero esame alla Scrittura. Ciò indubbiamente fu a vantaggio dello sviluppo della critica biblica, che ebbe nel campo protestante alcuni dei suoi maggiori cultori, ma che finì per aprire la strada al cosiddetto protestantesimo liberale del XIX sec., tendente a storicizzare e a relativizzare tutti i dati della Rivelazione.

Tuttavia, come la reazione del pietismo nel XVII sec. aveva controbattuto le sottigliezze e i virtuosismi teologici della scolastica protestante, così in epoca moderna si assiste a un vasto movimento teologico di reazione al protestantesimo liberale in nome di un ritorno alle fonti della Riforma e alla Scrittura. Accanto ad Albert Schweitzer, che per certi aspetti può essere considerato l'erede delle tendenze liberali, sorgono, nel protestantesimo, un Cullmann, che sviluppa, con molti altri, il rinnovamento esegetico, cercando di interpretare il messaggio della Scrittura dal suo interno, senza altre preoccupazioni filosofiche o speculative; o un Bultmann che, tutto teso a un'interpretazione il più possibile "contemporanea" della Bibbia, sulle orme del pensiero esistenzialista, propone di demitizzare il contenuto della Scrittura, enucleando, sotto i loro racconti "mitici", il nocciolo delle verità eterne. Ma il più grande teologo protestante contemporaneo, quello che ha dato un'impronta a gran parte della teologia moderna (anche cattolica), è Karl Barth.
 
La sua "teologia dialettica", partita da un rifiuto radicale della teologia liberale, accusata di aver ridotto Dio a dimensioni umane per essersi posta dal punto di vista dell'uomo invece che da quello di Dio, concepisce un Dio "totalmente altro" rispetto all'uomo, ma che ha rivelato se stesso nel Cristo, cessando di essere un mistero insondabile. Dal Commento all'Epistola ai Romani fino alla monumentale Dogmatica della Chiesa, la teologia barthiana si è venuta poi tutta organizzando intorno alla "concentrazione cristologica": solo il richiamo diretto e costante a Cristo può garantire alla teologia una completa fedeltà alla Scrittura e un'autentica capacità di adattamento ai tempi presenti.

Per altro verso, l'incarnazione di Dio in Cristo fa sì che solo attraverso Cristo sia possibile raggiungere per l'uomo una piena umanità: se Dio è entrato nella storia, coloro che si richiamano a Cristo non possono vivere fuori dal mondo, ma devono assumere su di sé i suoi problemi, le sue strutture e vivere in piena solidarietà con tutto ciò che costituisce la vita degli uomini. Gli atteggiamenti personali di Barth nel tragico periodo del nazismo testimoniano vivamente come per lui l'attesa escatologica non può mai significare evasione, ma implica sempre un impegno responsabile nella realtà storica e sociale.

Prendendo spunto dalla teologia barthiana, ma radicalizzandone o isolandone taluni aspetti, si è messo in moto nell'ambito protestante un processo apparentemente antitetico a quello seguito dal maestro, vale a dire dalla cristologia all'antropologia, con la pretesa cioè di concentrare l'attenzione "teologica" sull'uomo e i suoi problemi: in questa direzione ha agito anche l'opera geniale e rinnovatrice del pastore tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), morto in un campo di concentramento nazista.

Si tratta della cosiddetta teologia radicale, che è ormai difficile distinguere secondo tendenze confessionali, e che parla di un cristianesimo senza religione (intendendo con quest'ultimo termine tutte le sovrastrutture ideologiche, rituali, filosofiche venutesi a sovrapporre alla semplice parola di Cristo), o, ancor più decisamente, della "morte di Dio" (intendendo indicare la fine di tutta una tradizionale visione religiosa di un Dio trascendente, per vederlo completamente incarnato nell'umanità e nei suoi destini).


[SM=g1740750]

Caterina63
00giovedì 27 agosto 2009 18:33

Il governo della Chiesa universale, le parole del Papa nei media e il rapporto con i fedeli: il card. Bertone su Benedetto XVI e il suo Pontificato



Il progetto di Chiesa e di società del Papa è chiaro e lineare: “Spingere i singoli e le comunità a una vita divinamente e umanamente armonica, con la teologia dell’‘et’ e la spiritualità del ‘con’, mai del ‘contro’”: lo afferma il card. Tarcisio Bertone (nella foto con Benedetto XVI), segretario di Stato vaticano, in un’intervista esclusiva a L’Osservatore Romano alla vigilia della celebrazione che presiederà domani a L’Aquila, in occasione della Perdonanza celestiniana.

Una presenza - sottolinea al riguardo il porporato - che testimonia l’attenzione del Pontefice alle esigenze delle popolazioni terremotate e la sua speranza che “nulla possa far pensare a lentezze o disimpegno” nell’opera di ricostruzione. Riproponendo il valore della Perdonanza come gesto di riconciliazione e di rinnovamento anche a livello economico e sociale, il cardinale indica nell’attenzione del Papa verso i poveri una delle caratteristiche fondanti del Pontificato.

E invita a guardare alla “riforma della Chiesa” intrapresa da Benedetto XVI soprattutto come richiamo alla “interiorità” e alla “santità”, vissute nella fedeltà a Cristo e alla legge evangelica dell’amore.

Anche nella sua azione quotidiana di governo - assicura Bertone - emerge il distacco del Papa “dalle manovre e dal chiacchiericcio” di certi ambienti curiali e la sua volontà di puntare su persone competenti,
animate da “genuino spirito pastorale”.
 
In questa direzione - rivela - sono in cantiere alcune importanti nomine che daranno voce e rappresentanza a nuove realtà della Chiesa come quella africana.

Una battuta, infine, sull’Anno Sacerdotale, che secondo il segretario di Stato offrirà l’occasione di un riavvicinamento ai sacerdoti che sono in una condizione marginale nell’azione pastorale o hanno abbandonato l’esercizio del ministero.

Il Papa è spesso vittima di "elucubrazioni" e i "sussurri su presunti documenti di retromarcia sono pura invenzione secondo un clichè standardizzato e ostinatamente riproposto". "Per capire le intenzioni e l'azione di governo del Papa - dice - occorre rifarsi alla sua storia personale - un'esperienza variegata che gli ha permesso di attraversare la Chiesa conciliare da vero protagonista".
 
"Le altre elucubrazioni e i sussurri su presunti documenti di retromarcia - prosegue Bertone - sono pura invenzione secondo un cliché standardizzato e ostinatamente riproposto. Vorrei solo citare alcune istanze del Concilio Vaticano II dal Papa costantemente promosse con intelligenza e profondità di pensiero: il rapporto più comprensivo instaurato con le Chiese ortodosse e orientali, il dialogo con l'ebraismo e quello con l'islam, con una reciproca attrazione, che hanno suscitato risposte e approfondimenti mai prima verificati, purificando la memoria e aprendosi alle ricchezze dell'altro".

"Pur essendo un grande teologo e maestro di dottrina, un intellettuale e uno studioso importante, che si misura con gli uomini e le donne di pensiero del nostro tempo, Papa Ratzinger si fa capire da tutti ed è vicino alla gente, perché nelle sue parole anche la gente semplice percepisce la verità e coglie il senso di una fede e una saggezza umana ricca di paternità".
 
"Benedetto XVI - sottolinea il porporato - raggiunge una molteplicità di situazioni di povertà di singoli, di famiglie e di comunità sparse nel mondo, sia direttamente, sia attraverso la Segreteria papale o Segreteria di Stato, sia attraverso gli organismi preposti alla carità, come l'Elemosineria apostolica, il Pontificio Consiglio Cor Unum e altri, e con essi distribuisce non solo le offerte che riceve dai fedeli, dalle diocesi, dalle congregazioni religiose e le associazioni benefiche, ma anche i suoi diritti di autore, frutto del suo personale lavoro". "Infine, sulla scia dei suoi predecessori, con un accento peculiare - conclude il braccio destro di Papa Ratzinger - interviene, richiama, risveglia, sollecita l'azione dei Governi e delle organizzazioni internazionali per sanare le disuguaglianze e le discriminazioni più brucianti in tema di sottosviluppo e di povertà".

"È invalsa l'abitudine di imputare al Papa - o, come si dice, soprattutto in Italia, al Vaticano - la responsabilità di tutto ciò che accade nella Chiesa o di ciò che viene dichiarato da qualsiasi esponente o membro di Chiese locali, di istituzioni o di gruppi ecclesiali. Ciò non è corretto".

"Benedetto XVI - prosegue il porporato - è un modello di amore a Cristo e alla Chiesa, la impersona come Pastore universale, la guida nella via della verità e della santità, indicando a tutti la misura alta della fedeltà a Cristo e alla legge evangelica.
Ed è giusto, per una corretta informazione, attribuire a ciascuno (unicuique suum) la propria responsabilità per fatti e parole, soprattutto quando essi contraddicono patentemente gli insegnamenti e gli esempi del Papa.

L'imputabilità è personale, e questo criterio vale per tutti, anche nella Chiesa. Ma purtroppo - conclude Bertone - il modo di riportare e di giudicare dipende dalle buone intenzioni e dall'amore per la verità dei giornalisti e dei media". Il segretario di Stato invita dunque a "insegnare la verità, far conoscere e amare la verità, su se stessi, sul mondo, su Dio, convinti, secondo la parola di Gesu', che 'la verita' vi fara' liberi!'".

"Sinceramente ritengo che sarebbe molto facile per i giornalisti raccontare l'azione e il pensiero di Benedetto XVI" rifacendosi ai suoi scritti e ai suoi interventi, osserva il cardinale.





L'intervista integrale


Ne parla il segretario di Stato in un'intervista rilasciata alla vigilia della Perdonanza celestiniana

Il progetto di Chiesa e di società
di Benedetto XVI


 Il perdono è la forza della Chiesa per vincere il male ed è il percorso scelto da Benedetto XVI per proporre in termini convincenti alla società contemporanea una rinnovata apertura a Dio.
Il cardinale Tarcisio Bertone, in una intervista esclusiva al nostro giornale, prende spunto dalla celebrazione della Perdonanza celestiniana all'Aquila il 28 agosto per ribadire che solo una Chiesa e una società inclusive rispecchiano il progetto per cui sta operando Benedetto XVI. È la prima volta di un segretario di Stato alla storica celebrazione, decisa quale segno di affetto e vicinanza del Papa alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. Tanti gli spunti concreti di novità per sacerdoti e laici, che ci saranno nella curia romana e nella pastorale, che il cardinale Bertone offre. La pubblica opinione è chiamata a un alto senso di responsabilità che aiuta, tra l'altro, a superare ogni fraintendimento sul percorso scelto da Papa Benedetto, il pontefice che non brandisce la spada dello scontro e si fa capire dalla gente.

Perché il cardinale segretario di Stato ha deciso quest'anno di partecipare alla celebrazione del Perdono di Celestino V?

Il segretario di Stato è un vescovo e come primo collaboratore del Papa partecipa alla sua missione pastorale per il bene del popolo di Dio. Dopo aver celebrato il rito funebre per le vittime del terremoto, sono stato invitato a presiedere all'inaugurazione dell'Anno celestiniano e della sessantesima Settimana liturgica nazionale che doveva tenersi all'Aquila. Ho accettato volentieri sia per la connessione affettiva e spirituale che ormai mi lega alla terra abruzzese, sia per il tema scelto:  il sacramento del perdono, forza che vince il male. Poi, per evidenti motivi, la Settimana liturgica è stata trasferita a Barletta, in Puglia, mentre la festa della Perdonanza non poteva che essere celebrata all'Aquila, sotto il segno della riconciliazione che ricostruisce la comunione con Dio e con i fratelli, e risana le ferite del corpo e dello spirito. La mia partecipazione, inoltre, si pone in continuità con la vicinanza del Papa alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. Dopo la sua commovente visita all'Aquila, il Papa ha seguito l'azione della Chiesa, che si è espressa con i generosi contributi di molte diocesi italiane e non italiane, e si mantiene informato sull'azione delle istituzioni civili, sugli aiuti già avviati e anche sulle promesse fatte a livello internazionale, in occasione del g8. Come tutti noi, auspica che nulla possa fare pensare a lentezze o a disimpegno nel ridare alle persone la possibilità di riprendere una normale vita familiare nelle loro case, ricostruite o rese agibili, e nelle loro attività economiche e sociali.

La Perdonanza fu una importante iniziativa di Celestino V per estendere con larghezza le indulgenze spirituali, che in questo modo erano messe a disposizione anche dei cristiani più umili. Qual è l'attenzione ai poveri della Chiesa di Benedetto XVI?

Conosciamo la forza dirompente dell'atto compiuto da Celestino V:  il suo dono ha spinto poi il suo immediato successore, Bonifacio viii, a promulgare il Giubileo, con l'indulgenza estesa ormai a tutto il mondo, in un impulso plenario di rinnovamento, di perdono e di condono anche a livello economico e sociale, oltre che spirituale. Si rammentino le iniziative planetarie nate dal Giubileo del 2000. Venendo all'atteggiamento di Benedetto XVI verso i poveri, vorrei sottolineare innanzi tutto la sua particolare attenzione ai piccoli e agli umili. Pur essendo un grande teologo e maestro di dottrina, un intellettuale e uno studioso importante, che si misura con gli uomini e le donne di pensiero del nostro tempo, Papa Ratzinger si fa capire da tutti ed è vicino alla gente, perché nelle sue parole anche la gente semplice percepisce la verità e coglie il senso di una fede e una saggezza umana ricca di paternità. Parafrasando una espressione biblica, potremmo dire, con le parole del salmo 25, che "guida gli umili nella giustizia e ai poveri insegna la via del Signore". Benedetto XVI raggiunge una molteplicità di situazioni di povertà di singoli, di famiglie e di comunità sparse nel mondo, sia direttamente, sia attraverso la Segreteria papale o Segreteria di Stato, sia attraverso gli organismi preposti alla carità, come l'Elemosineria apostolica, il Pontificio Consiglio Cor Unum e altri, e con essi distribuisce non solo le offerte che riceve dai fedeli, dalle diocesi, dalle congregazioni religiose e le associazioni benefiche, ma anche i suoi diritti di autore, frutto del suo personale lavoro. Si può dire che realmente, secondo la definizione di sant'Ignazio di Antiochia, egli "presiede nella carità", guidando con l'esempio quel vasto movimento di carità e di solidarietà planetaria che la Chiesa svolge nelle sue più articolate componenti e ramificazioni capillari. Infine, sulla scia dei suoi predecessori, con un accento peculiare interviene, richiama, risveglia, sollecita l'azione dei Governi e delle organizzazioni internazionali per sanare le disuguaglianze e le discriminazioni più brucianti in tema di sottosviluppo e di povertà. Vorrei ricordare, tra gli innumerevoli testi, appelli e messaggi, il numero 27 della Caritas in veritate dove denuncia l'accentuarsi di una estrema insicurezza di vita e di crisi alimentari provocate sia da cause naturali sia dall'irresponsabilità politica nazionale e internazionale:  "È importante evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto, come uomini politici e responsabili di Istituzioni internazionali hanno negli ultimi tempi intuito".

Lei conosce i consensi che circondano Benedetto XVI ma anche alcune riserve, specialmente sulla fedeltà al concilio Vaticano II e sulla riforma della Chiesa. Le sembrano timori fondati?

Per capire le intenzioni e l'azione di governo di Benedetto XVI occorre rifarsi alla sua storia personale - un'esperienza variegata che gli ha permesso di attraversare la Chiesa conciliare da vero protagonista - e, una volta eletto Papa, al discorso di inaugurazione del pontificato, a quello alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e agli atti precisi da lui voluti e firmati (e talora pazientemente spiegati). Le altre elucubrazioni e i sussurri su presunti documenti di retromarcia sono pura invenzione secondo un cliché standardizzato e ostinatamente riproposto. Vorrei solo citare  alcune  istanze  del  concilio  Vaticano II dal Papa costantemente promosse con intelligenza e profondità di pensiero:  il rapporto più comprensivo instaurato con le Chiese ortodosse e orientali, il dialogo con l'ebraismo e quello con l'islam, con una reciproca attrazione, che hanno suscitato risposte e approfondimenti mai prima verificati, purificando la memoria e aprendosi alle ricchezze dell'altro. E inoltre mi fa piacere sottolineare il rapporto diretto e fraterno, oltre che paterno, con tutti i membri del collegio episcopale nelle visite ad limina e nelle altre numerose occasioni di contatto. Si ricordi la prassi da lui avviata dei liberi interventi alle assemblee del Sinodo dei vescovi con puntuali risposte e riflessioni dello stesso Pontefice. Non dimentichiamo poi il contatto diretto instaurato con i superiori dei dicasteri della Curia romana con i quali ha ripristinato i periodici incontri di udienza. Quanto alla riforma della Chiesa - che è soprattutto una questione di interiorità e di santità - Benedetto XVI ci ha richiamati alla fonte della Parola di Dio, alla legge evangelica e al cuore della vita della Chiesa:  Gesù il Signore conosciuto, amato, adorato e imitato come "colui nel quale piacque a Dio di far abitare ogni pienezza", secondo l'espressione della lettera ai Colossesi. Con il volume Gesù di Nazaret e con il secondo che sta preparando, il Papa ci fa un grande dono e sigilla la sua precisa volontà di "fare di Cristo il cuore del mondo".
Non dimentichiamo quanto ha scritto nella lettera ai vescovi cattolici dello scorso 10 marzo sulla remissione della scomunica dei vescovi consacrati dall'arcivescovo Lefebvre:  "Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell'amore spinto sino alla fine (cfr. Gv 13, 1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall'orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l'umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più". 

Quali sono stati gli interventi qualificanti nella Curia romana di Benedetto XVI e quali bisogna ancora attendersi?

Benedetto XVI è un profondo conoscitore della Curia romana, dove ha ricoperto un ruolo preminente come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, un osservatorio e un dicastero centrale per la connessione delle giunture con tutti gli altri organismi di governo della Chiesa. Così ha potuto conoscere perfettamente persone e dinamismi e seguire il percorso delle nomine avvenute sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, pur nel suo distacco dalle manovre e dal chiacchiericcio che a volte si sviluppa in certi ambienti curiali, purtroppo poco permeati da vero amore alla Chiesa. Dall'inizio del suo pontificato, ancora breve, sono oltre 70 le nomine di superiori dei vari dicasteri, senza contare quelle dei nuovi nunzi apostolici e dei nuovi vescovi in tutto il mondo. I criteri che hanno guidato le scelte di Benedetto XVI sono stati:  la competenza, il genuino spirito pastorale, l'internazionalità. Sono alle porte alcune nomine importanti e non mancheranno le sorprese, soprattutto in relazione alla rappresentanza delle nuove Chiese:  l'Africa ha già offerto e offrirà eccellenti candidati.

È giusto attribuire alla responsabilità del Pontefice tutto quello che accade nella Chiesa o è utile per una corretta informazione applicare il principio di responsabilità personale?

È invalsa l'abitudine di imputare al Papa - o, come si dice, soprattutto in Italia, al Vaticano - la responsabilità di tutto ciò che accade nella Chiesa o di ciò che viene dichiarato da qualsiasi esponente o membro di Chiese locali, di istituzioni o di gruppi ecclesiali. Ciò non è corretto. Benedetto XVI è un modello di amore a Cristo e alla Chiesa, la impersona come Pastore universale, la guida nella via della verità e della santità, indicando a tutti la misura alta della fedeltà a Cristo e alla legge evangelica. Ed è giusto, per una corretta informazione, attribuire a ciascuno (unicuique suum) la propria responsabilità per fatti e parole, soprattutto quando essi contraddicono patentemente gli insegnamenti e gli esempi del Papa. L'imputabilità è personale, e questo criterio vale per tutti, anche nella Chiesa. Ma purtroppo il modo di riportare e di giudicare dipende dalle buone intenzioni e dall'amore per la verità dei giornalisti e dei media. Ho letto di recente un bell'articolo di Javier Marías, che fa un'amara riflessione:  "Ho avuto modo di osservare che una vasta percentuale della popolazione mondiale non si preoccupa più della verità. Temo però di aver peccato di eccessiva cautela, perché ciò che sta accadendo è di gran lunga più funesto:  una vasta percentuale della popolazione oggi non è più in grado di distinguere la verità dalla menzogna, oppure, per essere più precisi, la realtà dalla finzione". Rimane perciò ancora più urgente e necessario insegnare la verità, far conoscere e amare la verità, su se stessi, sul mondo, su Dio, convinti, secondo la parola di Gesù, che "la verità vi farà liberi!" (Giovanni, 8, 32).

Può  spiegare,  magari  anche  con  qualche esempio, come nella Chiesa di Benedetto XVI la libertà di pensiero e di ricerca vada di pari passo con la responsabilità della fede?

In relazione a questo tema - che è assai importante e centrale nella Chiesa, e che tocca altri binomi strettamente connessi, come fede e ragione, fede e cultura, scienza e fede, obbedienza e libertà - occorre riandare all'esempio della vita e dell'esperienza di Joseph Ratzinger, pensatore, teologo e maestro di dottrina riconosciuto, come ho appena detto. Non si può ovviamente scindere la sua prassi e il suo stile di governo dalle convinzioni più profonde che hanno nutrito e segnato il suo comportamento di studioso e di ricercatore. Nel suo lungo percorso di intellettuale, assai attivo sulle cattedre universitarie e sui media, si sono aggiunte successivamente due formidabili responsabilità:  dapprima quella di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e poi quella di Pastore supremo della Chiesa cattolica. È evidente che queste due funzioni hanno segnato gli insegnamenti e gli atti del cardinale e del Papa, orientandoli ancor più efficacemente, se così si può dire, a una interazione e a una sinergia fra la libertà fondamentale di pensiero e di ricerca e la responsabilità dell'atto di fede e dell'adesione di fede a Dio che si rivela, che parla e chiama a essere "nuova creatura". Non quindi una contrapposizione o una "secessione", ma una armonia da ricercare, da costruire con intelligenza d'amore. Tale è l'atteggiamento di Joseph Ratzinger quando parla a organismi come la Pontificia Commissione Biblica, la Commissione Teologica Internazionale, la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia per la Vita, e così via, oppure quando dialoga con singoli studiosi e pensatori. Chiede ai teologi di non essere sradicati dalla fede della Chiesa, per essere veri teologi cattolici, e ha elogiato - ad Aosta, lo scorso 25 luglio - "la grande visione che ha avuto Teilhard de Chardin:  l'idea paolina che alla fine avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà ostia vivente". E vorrei ancora citare una bella pagina della Caritas in veritate ove parla "dell'impegno per fare interagire i diversi livelli del sapere umano in vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli". Dopo aver spiegato che il sapere non è mai solo opera dell'intelligenza, e che il sapere è sterile senza l'amore, conclude:  "Le esigenze dell'amore non contraddicono quelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale dell'uomo. C'è sempre bisogno di spingersi più in là:  lo richiede la carità nella verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c'è l'intelligenza e poi l'amore:  ci sono l'amore ricco di intelligenza e l'intelligenza piena di amore" (n. 30). 

Trova che sia facile o difficile raccontare l'azione e il pensiero di Benedetto XVI giunto al quinto anno di pontificato?

Sinceramente ritengo che sarebbe molto facile per i giornalisti raccontare l'azione e il pensiero di Benedetto XVI. Scorrendo i volumi dei suoi Insegnamenti o i testi pubblicati su "L'Osservatore Romano" - che sempre ne trasmette fedelmente gli interventi, talora anche spontanei e ricchi di immediatezza e di attualità - non sarebbe difficile ricostruire il suo progetto di Chiesa e di società, coerentemente ispirato al Vangelo e alla più autentica tradizione cristiana. Benedetto XVI ha una visione limpida e vorrebbe spingere i singoli e le comunità a una vita divinamente e umanamente armonica, con la teologia dell'et e la spiritualità del "con", mai del "contro", a meno che non si tratti delle terribili ideologie che hanno portato l'Europa nei baratri del secolo scorso. Basterebbe essere altrettanto limpidi e fedeli, riportando sine glossa, cioè senza l'aggiunta di contorte interpretazioni, le sue genuine parole e i suoi gesti di padre del popolo di Dio.

Un'ultima domanda:  come è nata l'idea dell'Anno sacerdotale?

Ricordo che dopo il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, sul tavolo del Papa vi era una proposta, già precedentemente presentata, per un anno della preghiera, che di per sé era ben collegata con la riflessione sulla Parola di Dio. Tuttavia, la ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della morte del curato d'Ars e l'emergenza delle problematiche che hanno investito tanti sacerdoti, hanno mosso Benedetto XVI a promulgare l'Anno sacerdotale, dimostrando così una speciale attenzione ai sacerdoti, alle vocazioni sacerdotali e promuovendo in tutto il popolo di Dio un movimento di crescente affetto e vicinanza ai ministri ordinati. Essi sono senza dubbio la spina dorsale delle Chiese locali e i primi cooperatori del vescovo nella missione dell'annuncio della fede, della santificazione e della guida del popolo di Dio. Il Papa ha sempre dimostrato una grande vicinanza e affabilità verso i sacerdoti, soprattutto nei dialoghi spontanei, ricchi di esperienza e di indicazioni concrete sulla loro vita, e con risposte puntuali alle loro domande. L'Anno sacerdotale sta suscitando un grande entusiasmo in tutte le Chiese locali e un movimento straordinario di preghiera, di fraternità verso e fra i sacerdoti e di promozione della pastorale vocazionale. Si sta inoltre irrobustendo il tessuto del dialogo, talora appannato, tra vescovi e sacerdoti, e sta crescendo una attenzione speciale anche verso i sacerdoti ridotti a una condizione marginale nell'azione pastorale. Si auspica anche che avvenga una ripresa di contatto, di aiuto fraterno e possibilmente di ricongiungimento con i sacerdoti che per vari motivi hanno abbandonato l'esercizio del ministero. Molte iniziative sono indirizzate a rafforzare la coscienza dell'identità e della missione sacerdotale, che è essenzialmente una missione esemplare ed educativa nella Chiesa e nella società. I santi sacerdoti che hanno popolato la storia della  Chiesa  non  mancheranno  di proteggere  e  di  sostenere  il  cammino di  rinnovamento  proposto  da  Benedetto XVI.


(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2009)



Caterina63
00mercoledì 9 settembre 2009 16:43

Senza tradizione la teologia è un albero sradicato dal suolo


Del Direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana


CITTA' DEL VATICANO, sabato, 29 agosto 2009 (ZENIT.org).- In preparazione alla visita di Benedetto XVI alla culla di san Bonaventura, Bagnoregio, del 6 settembre prossimo, pubblichiamo l'intervento pronunciato da Paolo Vian, Direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana, in occasione della presentazione del libro di Joseph Ratzinger, "San Bonaventura. La teologia della storia" (Edizioni Porziuncola, Assisi 2008), svoltasi il 26 febbraio 2008 alla Pontificia Università  Antonianum.




* * *

"Per la piena e oggettiva comprensione della storia spirituale d'Italia nel secolo decimoterzo, mai e poi mai avremmo dovuto dissociare le due grandi figure che Dante, e con lui la migliore tradizione religiosa del suo tempo, hanno visto indissolubilmente avvinte l'una all'altra:  la figura di Gioacchino e quella di Francesco. La catena appenninica non è soltanto fisicamente la spina dorsale della penisola:  dalla Sila al Subasio è corsa, nella maturità del medioevo italiano, una stupenda continuità spirituale. Avervi inciso una frattura è stato gesto di improvvida iconoclastia". Può sembrare sorprendente, ma Joseph Ratzinger non avrebbe probabilmente difficoltà a sottoscrivere quest'affermazione che nel 1931 Ernesto Buonaiuti poneva all'inizio della sua ricostruzione della vita e del pensiero di Gioacchino da Fiore. Proprio nell'introduzione al volume di cui stasera presentiamo la nuova edizione italiana, l'allora giovane teologo bavarese ricordava come una teologia e una filosofia della storia nascano soprattutto nei periodi di crisi della storia dell'uomo, a partire dal De civitate Dei agostiniano, risposta al collasso dell'impero romano e del mondo antico. "Da allora il tentativo di dominare la storia teologicamente non fu mai più estraneo alla teologia occidentale (...)" (p. 15).

Agli inizi del secolo tredicesimo questo sempre ricorrente tentativo di dominare teologicamente la storia raggiunse un nuovo punto culminante nella profezia della storia di Gioacchino da Fiore, ma essa - ecco il punto in cui le visioni del modernista italiano e del teologo tedesco coincidono - "raggiunse (...) la sua massima forza solo con la splendida conferma venutale dalla persona e dall'opera di san Francesco d'Assisi" (p. 16). I due fattori combinati - l'appello di Gioacchino e la risposta del francescanesimo - misero in discussione l'immagine medievale della storia generando un "nuovo, secondo momento culminante nel modo cristiano di pensare la storia (...) rappresentato dalle Collationes in Hexaëmeron di San Bonaventura" (p. 16). 

(...) Intento delle Collationes è quello di "contrapporre ai traviamenti spirituali del tempo l'immagine dell'autentica sapienza cristiana" (p. 27), facendo seriamente i conti con l'ora storica. Ma - Ratzinger mostra di rendersene subito conto - i sei livelli della conoscenza, allegoricamente indicati nei sei giorni della creazione e simboleggiati nelle sei età della salvezza, sono ulteriormente articolati in diversi livelli che presentano indiscutibilmente un accrescimento nel tempo della conoscenza. Riconoscendo un carattere storico alle affermazioni scritturistiche, Bonaventura si distingue dall'interpretazione dei Padri e degli scolastici improntata a un'idea di immutabilità. Con l'idea delle theoriae, sorta di rationes seminales in prospettiva temporale, "rispecchiamento nella Scrittura dei tempi futuri" (p. 28), Bonaventura fa sua l'interpretazione della Scrittura che Gioacchino aveva presentato nella Concordia. Bonaventura "afferma così quella concezione fondamentalmente storica che costituisce la novità decisiva apportata dall'abate calabrese nei confronti della mentalità dei Padri" (p. 29). La Scrittura è certamente compiuta, la Rivelazione è conclusa, ma il suo significato va ricercato in uno sviluppo continuo lungo tutta la storia e non ancora concluso (cfr p. 29). Per la nostra posizione nel tempo, noi vediamo e comprendiamo più dei Padri:  "In questo modo l'interpretazione della Scrittura diviene teologia della storia, illuminazione del passato come profezia del futuro" (p. 30). 

Sono queste le premesse che inducono Bonaventura a escludere Agostino dalla teologia della storia, puntando tutto su una corrispondenza fra la storia dell'Antico Testamento e quella del Nuovo che Agostino aveva invece risolutamente scartato (cfr p. 32). In essa Cristo non è la fine dei tempi - come nello schema agostiniano - ma il centro dei tempi, e proprio questa opzione spinge Bonaventura a credere "in una nuova salvezza che si realizza "nella storia", entro i confini di questo tempo terreno" (p. 34); allora anche la Chiesa nella sua forma compiuta di "ecclesia contemplativa" è di là da venire e dobbiamo ancora attendere una sua trasformazione nella storia (cfr p. 35). Dunque, sorprendentemente, Ratzinger ci presenta un Bonaventura che nell'estate 1273 (...) risente in maniera vistosa e consapevole dell'influsso di Gioacchino. Ma quale Gioacchino? Ratzinger precisa subito:  Bonaventura "si distacca chiaramente e risolutamente" dalla grossolana manipolazione che di Gioacchino aveva fatto Gerardo da Borgo San Donnino, presentando gli scritti dell'abate calabrese come un Vangelo eterno destinato a soppiantare il Nuovo Testamento, transitorio e perituro (cfr p. 45). Ma il rifiuto di Gerardo operato da Bonaventura non può in alcun modo essere fatto coincidere "con il rifiuto del Gioacchino originale" (p. 46). La lettura di Ratzinger compie così contemporaneamente due operazioni:  mentre da un lato avvicina Bonaventura a Gioacchino, dall'altro separa nettamente Gioacchino dai gioachimiti. 

Ho detto che la lettura di Ratzinger, in piena e totale rottura con le precedenti analisi di Martin Grabmann e di Etienne Gilson e nella linea piuttosto di quelle di Alois Dempf e Leone Tondelli che gli hanno aperto la strada, avvicina Bonaventura a Gioacchino; ma il giovane teologo tedesco è anche pienamente consapevole delle molte differenze che intercorrono tra il francescano e il florense. La prima ha origine per l'appunto dalla particolare valutazione del tempo che li accomuna. Proprio perché il tempo e il suo decorso sono decisivi nelle visioni di Gioacchino e di Bonaventura, il francescano può superare, oltrepassare il florense in ragione di quanto è accaduto nei settant'anni che separano la morte dell'abate, nel 1202, dalla stesura delle Collationes nel 1273. La novità di Francesco d'Assisi marca in effetti una profonda differenza fra i due schemi. Per il suo discepolo, successore, biografo, Francesco non è un santo come gli altri, ma occupa una posizione assolutamente particolare e preminente nella storia della salvezza e nella sua ultima ora. Francesco è un novello Elia, un nuovo Giovanni Battista, è, soprattutto nelle Collationes, l'"angelo che sale dall'Oriente" (Apocalisse 7, 2), con il sigillo del Dio vivente, le stimmate della Verna.

Con questa immagine, che percorrerà potentemente tutto il Duecento francescano, Bonaventura identifica in Francesco la figura annunciata da Gioacchino nel quarto libro della Concordia cui sarà conferita la "piena libertà di rinnovare la religione cristiana". Alla profezia dell'abate di Fiore risponde puntualmente l'avvenimento di Francesco, al quale spetta il compito di segnare i 144.000 eletti fondando così la comunità della fine dei tempi. Ma in che misura questo novus ordo, espressione mistica dell'"ecclesia contemplativa" con la quale il sesto giorno si trasforma nella quiete sabbatica del settimo, corrisponde nella sua empirica fattualità all'ordine francescano di cui Bonaventura era ministro generale all'inizio dell'estate del 1273? 

Il quesito è fondamentale, anche per le conseguenze che ne derivano, e l'analisi dei testi condotta da Ratzinger è puntuale e attenta alle sfumature:  parte da Gioacchino, passa attraverso il commento pseudogioachimitico a Geremia, per poi soffermarsi sui passi fondamentali della collatio XXI e sui suoi paralleli; e arriva alla conclusione che Bonaventura, ignorando lo pseudo-Gioacchino, si rifà direttamente a Gioacchino, ma attualizzandolo alla luce di Francesco e del suo movimento. Se tesi fondamentale degli Spirituali era l'identificazione dell'ordine francescano, ovvero del suo ramo spirituale, con l'ordo del tempo finale, Bonaventura respinge l'equazione e assume una posizione diversa:  Francesco ha certo inaugurato una comunità nuova di uomini contemplativi ma essa, pur essendo intrinsecamente francescana, non si identifica tout court con l'attuale ordine francescano; questo forse fu originariamente destinato a svolgere tale ruolo, ma il tralignamento dei suoi membri ha fatto sì che i Francescani - come i Domenicani - si trovino ora sulla soglia del tempo nuovo che essi preparano senza però poterlo personalmente incarnare. Solo quando questo tempo nuovo verrà, solo allora sarà il momento della piena contemplatio e di una rinnovata comprensione della Scrittura, il tempo dello Spirito Santo e quindi dell'introduzione nella piena verità di Gesù Cristo.  

Agli occhi di Bonaventura, nell'analisi di Ratzinger, Francesco anticipa dunque nella propria persona una forma di esistenza escatologica che, quale forma di vita universale, appartiene ancora al futuro. Bisogna sorprendentemente concludere che questa realistica distinzione tra Francesco e il francescanesimo "non è (...) solo una scoperta della liberale Forschung su Francesco", che ebbe nella celebre biografia dell'allievo di Ernest Renan, Paul Sabatier, del 1893, il suo vertice più significativo, ma era già stata formulata "dal grande Generale francescano del secolo tredicesimo" (p. 81).

In questa "realistica distinzione" risiede anche la chiave di comprensione del comportamento di Bonaventura come ministro generale e del suo stesso atteggiamento di vita come francescano: Egli può rifiutare il sine glossa - che pure conosce dal testamento di lui come la vera volontà di Francesco - sia per l'esercizio della sua funzione che per la sua personale forma di vita, sapendo che per tutto ciò l'ora storica non è ancora scoccata. Fino a quando durerà il sesto giorno, i tempi non saranno ancora maturi per quella radicalità dell'esistenza cristiana che Francesco, per missione divina, aveva potuto realizzare in anticipo nella sua persona. Senza la coscienza di un'infedeltà nei riguardi del santo fondatore, Bonaventura poté e dovette, di conseguenza, creare per il suo ordine quei limiti istituzionali che sapeva non essere mai stati voluti da Francesco. È un metodo troppo facile e, in definitiva, menzognero, presentare questo come una falsificazione del vero francescanesimo. (...)Torniamo adesso, per concludere, a un passo della prefazione dell'edizione americana del volume, datata al 15 agosto 1969.

In esso, come si è visto, Ratzinger sottolinea come le Collationes siano la risposta alla crisi profonda innescata nell'Ordine e nella Chiesa dall'incrocio fra la speranza gioachimita e il movimento francescano. Bonaventura avrebbe potuto rifiutare totalmente Gioacchino, come aveva fatto Tommaso d'Aquino, optando per una storia tutta agostiniana e altomedievale, per la scontata parabola di un mundus senescens che precipita ineluttabilmente verso una crisi finale. Ma così facendo avrebbe rinnegato teologicamente quella novità che Francesco aveva portato, semplicemente con la sua vita, nel mondo; Bonaventura opta dunque per una strada diversa, rischiosa ma potenzialmente fecondissima:  interpreta Gioacchino "all'interno della tradizione, mentre i gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione" (p. 12). Così facendo il ministro generale ne offrì una lettura ecclesiale, che creò un'alternativa ai gioachimiti radicali e al tempo stesso cercò di conservare l'unità dell'Ordine (cfr p. 12).

Facciamo ora un passo avanti e ricordiamo che l'autore del libro che stiamo presentando è divenuto Papa il 19 aprile 2005, quarantasei anni dopo l'uscita del volume, trentasei dopo la formulazione di quelle parole dell'introduzione all'edizione americana. Come non pensare allora che il Papa che si è rivolto alla curia romana il 22 dicembre 2005 con il celebre discorso sull'eredità del concilio ecumenico Vaticano II e sulla necessità di leggerlo nella continuità della tradizione e non nell'ottica della frattura stia compiendo, per quell'eredità conciliare contesa e discussa, precisamente la stessa operazione che aveva individuato in Bonaventura nei confronti di Gioacchino? Quando Benedetto XVI parla della "giusta interpretazione del Concilio", della sua "giusta ermeneutica", della sua "giusta chiave di lettura e di applicazione" non sta forse auspicando per il Vaticano II la stessa lettura che aveva ritenuto di intuire in Bonaventura di fronte a Gioacchino? Interpretare il Vaticano II "all'interno della tradizione", evitando fughe in avanti e arroccamenti insensati, è forse la cifra profonda di questo pontificato; e piace pensare che un possibile modello dell'operazione di Benedetto XVI possa essere in qualche modo ravvisato nella teologia bonaventuriana della storia come era stata ritratta nel volume del 1959 e nella sua lettura di Gioacchino.

In questo modo il professor Ratzinger e Papa Benedetto XVI riaffermano che la teologia, come la vita cristiana, deve rimanere in contatto con la propria storia, senza la quale sarebbe "un albero divelto dalle proprie radici" (p. 12), condannato a inaridirsi e seccarsi. Tutti sappiamo che l'immagine dell'albero era cara a Gioacchino, come lo era a un altro suo interprete francescano duecentesco, discepolo fedele per quanto originale di Bonaventura, Pietro di Giovanni Olivi - citato solo in una nota del volume del 1959 - che nel suo commento all'Apocalisse presenterà la storia della Chiesa come una successione di status legati fra loro da una concurrentia che li unisce senza fratture, tale anzi che uno genera l'altro. E fu Olivi, con la straordinaria parabola dell'uomo di fronte alla triplice vetta di una montagna, a esprimere nel modo più efficace la nuova concezione gioachimitico-bonaventuriana della storia.

Si potrebbe aggiungere che non può certo apparire casuale che il professor Ratzinger che dedicherà tutto il secondo capitolo al contenuto della speranza intramondana nella nuova concezione gioachimitico-bonaventuriana sarà lo stesso che negli anni Ottanta e Novanta si confronterà come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede con le premesse e con gli esiti della teologia della liberazione e che, da Papa, dedicherà la sua seconda enciclica proprio al tema della speranza. Ma a ben vedere non è probabilmente solo il contenuto dell'operazione bonaventuriana a ispirare Benedetto XVI; lo è, in qualche modo, anche la forma; in ultima analisi, è lo stesso modello del teologo chiamato ad assumere una responsabilità nella Chiesa, il profilo che nel quinto secolo era stato del teologo Agostino divenuto vescovo di Ippona e poi, nel tredicesimo, del magister Bonaventura divenuto ministro generale dell'ordine francescano e cardinale, che forse rivive nella figura del primo vescovo di Roma del ventunesimo secolo, che fu teologo e rimane tale e attinge dalla sua riflessione teologica alimento per la predicazione e per il magistero.

In questo senso la lettura di questo volume del 1959 non è solo illuminante per comprendere Bonaventura e per capire il francescanesimo; diviene preziosa per comprendere lo spirito del suo autore e forse l'anima profonda del suo pontificato.

Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 03:51.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com