7. Las Vegas stringe il cappio
Incoraggiato dal successo dello special televisivo della NBC, Elvis si preparò a registrare un nuovo album. La sessione seguente era fissata per gennaio a Nashville, ma questa volta Elvis non voleva registrare il disco lì, probabilmente perché aveva parlato con Scotty Moore di inciderlo nel suo studio. Nessuno sembra sapere perché non proseguì insieme a Scotty: la probabile ragione è che il Colonnello Parker si oppose. Per anni, il Colonnello aveva risposto picche a qualsiasi richiesta che coinvolgesse Scotty o Bill. Marty Lacker, un altro dei ragazzi di Memphis che Elvis aveva conosciuto al liceo, aveva di recente iniziato a collaborare con Chips Moman degli "American Recording Studios". Moman aveva costruito lo studio dopo essersi allontanato dalla famiglia della "Stax Records" e per diversi anni aveva prodotto una serie spettacolare di successi con artisti come Wilson Pickett, Neil Diamond, Dusty Springfield, i Gentrys e B.J. Thomas. Nel 1969, Chips Momam era il produttore più richiesto d’America.
Lacker parlò con Elvis di registrare il suo prossimo disco per la RCA presso lo studio "American Recording", con Chips Moman in qualità di produttore. A Elvis l’idea piaceva: non solo lo sganciava da Scotty, ma lo collegava anche a un produttore noto. Aveva inoltre un altro motivo per incidere a Memphis. Sorprendentemente, nessuno dei dischi che aveva registrato in quella città era mai arrivato in prima posizione. Che un uomo identificato così tanto con la musica di Memphis non avesse mai inciso un album da numero uno proprio lì era motivo di imbarazzo, per lui. A parte ciò, non incideva a Memphis dal 1955 e voleva fare un altro tentativo.
Non fu altrettanto facile per Lacker convincere Moman. Elvis non produceva hit da anni, obiettò il produttore. Perché doveva interrompere il lavoro con artisti che stavano sfornando successi per collaborare con qualcuno che non lo stava facendo? Ci volle un po’, ma alla fine Lacker lo persuase a lavorare con il Re. Il Colonnello Parker era furioso. Invece di andare a Memphis a supervisionare la sessione, inviò Tom Diskin e Freddie Beinstock della "Hill and Range". Il Colonnello nutriva ancora un sano timore per la città e ci andava solo quando era assolutamente necessario.
La rivista «Billboard» prese atto della sessione di Memphis e riuscì a ottenere che un giornalista andasse in studio a intervistare Elvis.
«È qui che è iniziato tutto, per me» affermò il cantante, che non aveva mai permesso a un reporter di entrare in studio con lui (era stato Moman a invitare il giornalista). «È bello tornare a incidere a Memphis.»
Il Colonnello Parker non sapeva nulla di Moman, a parte che era giunto a Memphis in autostop dalla Georgia quand’era adolescente e si era fatto un nome come chitarrista, produttore e giocatore d’azzardo di notevole bravura. Fu quest’ultima dote che il Colonnello avrebbe apprezzato quando Diskin e Beinstock informarono Moman, dopo che erano già state incise numerose canzoni, che Elvis avrebbe dovuto avere una fetta del publishing dei due brani che Moman aveva portato alla sessione. Era una tangente standard in quel campo. A quell’allusione, Moman si stizzì.
«Vi dirò una cosa» fece, correndo il rischio. «Se la pensate così, chiuderò immediatamente la sessione e considererò quei due pezzi dei demo molto costosi.»
Diskin e Beinstock riferirono al Colonnello il messaggio. Moman aveva messo Parker con le spalle al muro. Se avesse sollevato un polverone sulla faccenda, Elvis avrebbe scoperto che il Colonnello intimidiva con le maniere forti publisher e autori delle canzoni per costringerli a cedere i loro diritti, e lui sentiva che Parker avrebbe preferito evitarlo. Anche se il Colonnello avesse insistito e Moman avesse concretizzato la minaccia di andarsene, sarebbe stata per lui una perdita accettabile: aveva altri artisti in attesa di registrare. Avrebbe solo dovuto dire: «Avanti il prossimo».
Ad ogni modo, Elvis venne a sapere quello che stava succedendo. Andò da Momam e gli chiese come potessero risolverla. Il produttore fu diretto: la gente del Colonnello, i publisher, dovevano andarsene dallo studio.
«Consideralo fatto» rispose Elvis.
Di fronte al coinvolgimento del cantante nella disputa, il Colonnello si ritirò dalla partita. Disse a Diskin di lasciar perdere e che si sarebbe assicurato che le due canzoni verso le quali Moman aveva un interesse economico – "Suspicious Minds" e "In the Ghetto" – non uscissero mai. C’era più di un modo per spellare un poveraccio della Georgia. Il Colonnello amava dire: «Non posso impedirti di iniziare, ma posso impedirti di finire».
Chips Moman e Steve Binder furono le uniche due persone ad avere la meglio sul Colonnello in un accordo. Binder ci riuscì superandolo con eleganza sulle specifiche dello speciale televisivo. Moman lo fece superandolo nel bluff – una mossa da giocatore d’azzardo, pura e semplice.
Le sessioni di registrazione all’American finirono per essere le migliori della carriera di Elvis fin dai primi lavori nello studio di Sam Phillips. Da quella sessione nacquero "Suspicious Minds", "Kentucky Rain", "Gentle on My Mind", "Any Day Now" e "In the Ghetto". Per la prima volta nella sua carriera, Elvis aveva un produttore che lo spingeva a dare il meglio. La maggior parte delle tracce fu preregistrata dalla 837 Thomas Street Band di Moman, cosicché quando Elvis arrivò in studio, il produttore dedicò le proprie energie a lavorare con il cantante sulle linee vocali.
«Quando ci si metteva, poteva essere in una giornata buona o cattiva» racconta Moman. «Se era cattiva, era meglio lavorare un altro giorno. Molte persone non comprendono come riuscii a fargli fare così tante registrazioni… gli facevo cantare un pezzo venti o trenta volte, ancora e ancora. Gli chiedevo di ripetere e sistemare piccoli versi che non gli riuscivano. Ma lui lo faceva senza problemi.»
Alcuni membri dell’entourage di Elvis interpretarono la sua collaborazione con Moman come un segno di debolezza e lo rimproverarono per questo.
«Perché permetti a quel tizio di bistrattarti?» chiesero.
Alcuni sembravano considerare l’etica del lavoro di Elvis in qualche modo svilente della loro stessa mascolinità. Il loro comportamento era strano, ma in difesa del cantante va detto che lui li ignorò del tutto.
Priscilla non lo aveva mai visto così emozionato di registrare. Spesso portava a Graceland le cassette con il lavoro della giornata per fargliele sentire. Ascoltavano le canzoni a ripetizione, ed Elvis sottolineava eccitato quello che preferiva di ciascuna.
Scotty Moore, D.J. Fontana e i Jordanaires non furono invitati alle incisioni. Scotty venne a sapere delle registrazioni quando lo lesse sul giornale. Fu una notizia sconcertante, perché aveva aspettato pazientemente che Elvis si facesse risentire per il tour mondiale e l’imminente sessione nel suo studio di Nashville. Ora sapeva che quella sessione non avrebbe mai avuto luogo.
Più avanti, quel mese, giunse notizia che Elvis avrebbe suonato a Las Vegas. Scotty venne contattato per suonare con il cantante, ma quando chiese della tournée mondiale, gli venne detto che non ce ne sarebbe stata una.
Scotty, D.J. e i Jordanaires avevano tutti trovato un lavoro stabile negli studi di Nashville, e filarsela a Las Vegas per un paio di settimane avrebbe voluto dire dover cancellare delle sessioni di registrazioni già in programma. Si riunirono, calcolarono quello che avrebbero perso cancellando quegli impegni se avessero suonato a Las Vegas e poi girarono la cifra al Colonnello. Se li avesse rimborsati di quelle perdite, sarebbero stati felici di andare in Nevada. La reazione di Parker non fu del tutto inaspettata: respinse l’offerta e formò una nuova band guidata dal chitarrista James Burton, un rispettato turnista di Los Angeles.
La delusione per le registrazioni che non si verificarono mai e per il tour mondiale che non divenne mai realtà, e il rifiuto del Colonnello Parker di pagare adeguatamente lui e gli altri per l’ingaggio di Las Vegas provocò una tale frustrazione in Scotty da spingerlo a riporre la chitarra e smettere di esibirsi per ventiquattro anni. Non avrebbe mai più rivisto Elvis.
Quasi subito dopo avere concluso le registrazioni all’American, Elvis iniziò a lavorare a un nuovo film, "Change of Habit", al fianco di Mary Tyler Moore e Ed Asner. Incoraggiato dalla qualità delle sue nuove canzoni, disse al Colonnello Parker che per un po’ non voleva girare altre pellicole. Il suo contratto con la MGM scadeva con "Change of Habit". Sarebbe stato un buon momento per prendersi una pausa e concentrarsi sulla sua musica. Con riluttanza, Parker acconsentì. Promise di fare del suo meglio per promuovere l’imminente impegno a Las Vegas.
In primavera, Elvis non riceveva altro che buone notizie. "In the Ghetto" era entrata nella Top Ten, la prima volta in oltre tre anni, e il suo disco "From Elvis in Memphis" veniva acclamato dai critici come il suo lavoro migliore da anni.
Insieme a questo giunsero notizie dal fronte politico. In maggio, nel bel mezzo di uno scandalo, il giudice della Corte Suprema Abe Fortas fu costretto a dimettersi, in seguito alla pubblicazione di resoconti secondo i quali aveva accettato denaro da un appaltatore della Difesa. Stavano venendo alla luce informazioni sui legami di Fortas con i casinò di Las Vegas e il senatore Robert Griffin del Michigan, che guidava le proteste contro la nomina di Fortas a presidente della Corte Suprema, rivelò che in conseguenza di quell’opposizione aveva ricevuto minacce di morte. In effetti, la situazione era perfino peggiore di quanto apparisse sulla stampa. L’FBI stava indagando su Fortas per un’ampia gamma di crimini, compresi corruzione, intralcio alla giustizia e pratica forense illegale.
Elvis non aveva nessuno con cui parlare davvero di quegli sviluppi, a eccezione del Colonnello Parker, e probabilmente aveva timore di sollevare l’argomento con lui. Elvis era in cima al mondo: la sua musica stava avendo successo, il nuovo presidente sembrava aver strappato le zanne agli squali di Las Vegas, e lui si sentiva di nuovo il rocker di una volta. Così pensò che l’incubo fosse finito.
Per gli standard di Las Vegas, l’Hotel Las Vegas International era una gigantesca mostruosità. Situato in un terreno di sessantatré acri, aveva trenta piani e offriva millecinquecentodiciannove stanze ammobiliate secondo tre stili diversi: spagnolo, francese e italiano. All’ultimo piano c’era una grande sala dove gli ospiti potevano ballare alla musica di un’orchestra, ma il fiore all’occhiello dell’albergo era il salone da esposizione, lo Showroom International, da duemila posti.
L’International era stato ideato dal finanziere Kirk Kerkorian, che aveva raccolto i sessanta milioni di dollari necessari a costruire quello che fu definito «il casinò più grande del mondo». Con mille slot machine, dodici tavoli da craps e trentadue da blackjack, distribuiti su oltre nove chilometri quadrati di superficie, meritava facilmente quel titolo.
L’International era il secondo hotel con casinò posseduto da Kerkorian a Las Vegas. Nel 1967 aveva acquistato il famigerato Hotel Flamingo di Bugsy Siegel per dodici milioni e mezzo di dollari. Kerkorian aveva un passato in affari con la MGM e grazie a quel collegamento conosceva il Colonnello Parker, ma il suo legame più diretto veniva da Alex Shoofey, l’uomo che aveva assunto per dirigere l’albergo.
Shoofey giunse all’International dall’Hotel Sahara, doveva aveva lavorato per Milton Prell, vecchio amico del Colonnello. Las Vegas non era altro che un’enorme famiglia allargata nella quale tutti erano imparentati in un modo o nell’altro attraverso collegamenti precedenti.
Dopo che Elvis aveva comunicato al Colonnello Parker che non voleva realizzare altri film – e nessuno alla MGM o alla Paramount lo supplicò di cambiare idea (i risultati delle sue pellicole al botteghino erano calati drasticamente durante gli anni Sessanta, caratterizzati da una forte coscienza sociale e, più spesso, le nuove uscite venivano relegate nei drive-in) – si recò a Las Vegas per scoprire che tipo di accordo potesse ottenere e se ne andò con un contratto con l’International.
L’inaugurazione ufficiale dell’hotel era fissata per il primo luglio. Shoofey pensò che Elvis sarebbe stato perfetto per lanciare il nuovo albergo, ma il Colonnello Parker non era d’accordo e si oppose. Elvis era ingrassato troppo e aveva bisogno di più tempo per rimettersi in forma. Shoofey chiese al Colonnello che ne pensava di un’apparizione di Barbra Streisand il mese prima di Elvis. A Parker l’idea piacque.
«Facciamo andare prima la ragazza» disse.
Elvis fu ingaggiato per venti giorni, due spettacoli a sera, all’International; la prima esibizione fu fissata per il 31 luglio e sarebbe iniziata alle otto e un quarto. Il secondo spettacolo era previsto per mezzanotte. Insieme a Elvis si sarebbero esibiti il cabarettista Sammy Shore e il gruppo femminile delle Sweet Inspirations.
Mentre Elvis si mise a dieta e fece esercizio nel corso del mese che precedeva l’ingaggio a Las Vegas, rendendo assolutamente sgradevole la vita a Graceland con un’infinita raffica di scatti d’ira, il Colonnello Parker si accampò a Las Vegas, dove percorse la città come aveva fatto infinite volte nel periodo trascorso alla Royal American: affisse migliaia di locandine, attaccandole a pali della luce, edifici e taxi, e fece inserire pubblicità a tutta pagina sui quotidiani locali.
Quando Elvis arrivò a Las Vegas, la settimana prima dell’inizio del suo ingaggio, fu accolto da oltre seimila telegrammi giunti da tutto il mondo. A dargli il benvenuto c’erano anche Frank Sinatra e sua figlia Nancy, che dopo aver raggiunto la prima posizione in classifica nel 1966 con "These Boots Are Made for Walkin’", aveva fatto parecchia strada, per quanto riguardava la carriera, da quando lo aveva accolto a New York al suo ritorno dalla Germania.
Incredibile a dirsi, Priscilla non aveva mai visto il marito in concerto. Lui le chiese di non andare alle prove, quella settimana, in modo da non rovinarsi l’impatto della serata d’apertura. La tennero all’oscuro di quanto si faceva alle prove, ma non poté ignorare il crescente senso d’anticipazione che percepiva in albergo e in città. L’enorme portata dell’incursione pubblicitaria del Colonnello la scioccò.
Elvis sapeva di dover fare bene. Il rock’n’roll era cambiato, da quella calda notte d’estate a Memphis in cui lui, Scotty e Bill lo avevano fatto venire alla luce. A trentaquattro anni, sapeva di non poter competere con i giovani artisti come i Beatles e i Rolling Stones. Molti americani della generazione under trenta quel mese avrebbero partecipato a un enorme festival a Woodstock, New York.
L’ultima volta che Elvis si era esibito a Las Vegas, il pubblico era composto per lo più da trentenni, fino agli ultra cinquantenni; era stato gentile, ma preferiva chiaramente la musica della generazione precedente. Elvis aveva lasciato la città pensando di aver fatto fiasco.
In questo caso, il pubblico apparteneva ancora alla stessa fascia d’età e ancora una volta preferiva la musica della generazione precedente… solo che ora si trattava della musica di Elvis Presley. Las Vegas era finalmente al passo con il Re.
Quando salì sul palco per esibirsi alla serata d’apertura del suo ingaggio, Elvis non sapeva che cosa aspettarsi. La stanza era zeppa di celebrità e giornalisti.
Il cantante disse al pubblico: «È la prima volta che suono dal vivo da nove anni a questa parte e potrebbe essere l’ultima, non so».
Poi si tuffò nel suo repertorio come gli artisti della New Wave si sarebbero in futuro tuffati tra il pubblico. Cantò con abbandono, eseguendo un misto di brani vecchi e nuovi, compresa la sua hit del momento, "In the Ghetto". Era esattamente quello che la gente era venuta a sentire e vedere.
Un reporter dell’«Associated Press» scrisse:
«Ci sono state tutte quelle rotazioni che ricordavamo da quando Presley lanciò se stesso e il rock’n’roll nel 1956. A gambe larghe, ha scosso quella sinistra, ha mosso la testa facendo svolazzare i capelli
come paglia nera, ha roteato la chitarra, poi una spinta finale da un lato, con il corpo che vibrava tutto, come un martello pneumatico».
Per la maggior parte, le recensioni del concerto d’apertura furono estremamente entusiaste.
«Dall’istante in cui Elvis ha iniziato "Jailhouse Rock", scrisse John Carpenter per il «Los Angeles Free Press», «né io né nessun altro dei presenti abbiamo avuto dubbi su chi fosse il grande capo del rock». Robert Christgau scrisse per il «Village Voice» che «… per sedici canzoni, Presley ci ha riunito tutti, fricchettoni scatenati e conservatori stagionati, e tutti abbiamo reagito alla stessa cosa: lui».
In un articolo per il «Chicago Sun Times», Kathy Orloff scrisse: «Elvis è il Re, lunga vita al Re».
«Newsweek» attribuì al Colonnello Parker il successo di Elvis e ipotizzò che l’International lo stesse pagando un milione di dollari per l’ingaggio (una stima sbagliata di circa settecentocinquantamila). La rivista si meravigliò della sua «capacità di resistenza» e commentò che era «difficile credere che avesse trentaquattro anni e non più diciannove».
Dopo il primo spettacolo, Elvis tenne una conferenza stampa, durante la quale gli fu chiesto se volesse fare altri concerti dal vivo una volta terminato l’impegno a Las Vegas.
«Spero davvero di farne» disse Elvis. «È quello che voglio. Vorrei suonare in tutto il mondo.»
Lord Sutch della "Lord Sutch Enterprises" disse a Elvis che era venuto a offrirgli un milione di sterline per un’esibizione di due concerti al Wembley Empire Stadium, in Inghilterra.
«Dovrà chiedere a lui» rispose Elvis, lanciando un’occhiata al Colonnello Parker, seduto lì vicino in un cappotto bianco cosparso di adesivi con la scritta «Elvis in Person».
«Le dispiacerebbe ripetere, per favore?» disse Parker.
Lord Sutch espresse di nuovo la sua offerta.
«Faccia il versamento» replicò Parker.
«D’accordo, me ne occuperò» disse Lord Sutch. Poi si rivolse a Elvis: «Le piacerebbe esibirsi in Inghilterra?».
«Assolutamente sì, dato che abbiamo ricevuto moltissime richieste» rispose il cantante. «E presto, visto che abbiamo ripreso a suonare dal vivo.»
Alla fine della conferenza stampa, il Colonnello Parker si alzò e disse ai giornalisti che ora potevano farsi tutti una foto con Elvis.
«Ma se ci mettete troppo» li avvertì «dovrò farvi pagare gli straordinari».
Dopo i commenti di Elvis sul tour in Europa, il Colonnello Parker iniziò subito a organizzarne uno in America, che avrebbe tenuto troppo impegnato il cantante per fargli pensare di lasciare il Paese.
Se il ragazzo voleva andarsene in giro a mescolarsi con la gente comune, il Colonnello si sarebbe assicurato che lo facesse con la gente comune americana.
Alla fine del mese di concerti, l’International annunciò che gli spettatori erano stati centounomila e cinquecento. Con il prezzo minimo fissato a quindici dollari, significava che l’albergo aveva guadagnato un milione e mezzo di dollari solo dalla vendita dei biglietti ed escludendo gli introiti derivati da casinò, ristoranti e camere prenotate.
Abile stratega come sempre, a metà del periodo d’ingaggio il Colonnello Parker fece sapere a un giornalista di sua fiducia del «The Commercial Appeal» di Memphis che Elvis aveva ricevuto un’offerta di cinque milioni di dollari per dieci anni di contratto da un albergo concorrente. Senza identificare la fonte dell’informazione, il giornale pubblicò un articolo contenente la smentita del Colonnello Parker.
«Siamo felici di come stanno le cose al momento» disse. «I prossimi dieci anni sono un periodo lungo a cui pensare.»
La notizia fu ripresa da «United Press International» e rimbalzò di nuovo a Las Vegas, dove fu pubblicata dai giornali locali. Abboccando allo stratagemma pianificato dal Colonnello, l’International offrì a Elvis un contratto da un milione di dollari per cinque anni, nello specifico con due ingaggi all’anno, ciascuno dei quali di cinquantasette spettacoli. Solo perché il Colonnello aveva venduto l’anima a Las Vegas non voleva dire che non potesse battere in astuzia la città a ogni occasione.
Anche così, comunque era un brutto affare per Elvis. L’International offriva centoventicinquemila dollari a settimana, meno di quello che ricevevano altre stelle importanti quanto lui.
Sottraendo la commissione del cinquanta per cento, metà di quel salario da un milione di dollari l’anno sarebbe rientrata a Las Vegas attraverso il Colonnello, che invariabilmente perdeva ai tavoli da gioco. La morale della favola era che Elvis era diventato uno schiavo a contratto. Per quella schiavitù avrebbe ricevuto cinquecentomila dollari l’anno, tra il cinquanta e il novanta per cento dei quali sarebbero finiti allo Zio Sam in tasse.
Il Colonnello lo aveva fatto passare da cantante di cabaret da cinquantamila dollari l’anno a uno da duecentomila. A Memphis c’erano avvocati e commercialisti che guadagnavano di più preparando dichiarazioni dei redditi.
Tornato a casa, a Memphis, Elvis si rilassò crogiolandosi sotto i raggi del suo successo. L’ingaggio di Las Vegas lo aveva sfinito; per tutto il tempo trascorso lì aveva fatto fatica a dormire. Nei mesi successivi al rientro a Memphis, arrivarono altre buone notizie. "Suspicious Minds", la canzone che il Colonnello aveva cercato di far eliminare dal disco, era giunta in vetta alle classifiche, la prima canzone ad arrivare al numero uno in oltre sette anni.
Quando Elvis tornò all’Hotel International, nel gennaio del 1970, per la prima delle apparizioni previste due volte all’anno, si era deciso di spezzettare gli ingaggi in gruppi da un paio di settimane. Il primo sarebbe iniziato il 26 gennaio e il secondo il 23 febbraio, concedendogli così uno stacco di altre due settimane per riprendere fiato.
«Variety» definì il suo spettacolo «l’essenza del teatro kabuki», riferendosi ai pugni da karateka altamente stilizzati e ai movimenti teatrali sul palco, che sembravano tutti progettati per trasmettere drammaticità alla musica suonata da una band che «Rolling Stone» descrisse come «insipida e professionale».
Alla serata d’apertura era presente Dean Martin, che Elvis omaggiò accennando il suo grande successo "Everybody Loves Somebody". Lo show fece il tutto esaurito come previsto, ma Elvis parve a malapena accorgersene. Eseguiva il compitino senza convinzione. Più di ogni altra cosa, era orgoglioso della propria professionalità.
Ma a chi lo circondava parve preoccupato. Quando parlava al pubblico, tra un pezzo e l’altro, a volte si lamentava di essere ingrassato e di non riuscire più a entrare nei costumi di scena. Altre volte sciorinava ai fans prediche religiose inquiete e sbrigative.
Come promesso, il Colonnello Parker si teneva impegnato organizzando una tournée. Il primo concerto fu a Houston, in Texas, dove aveva fissato per Elvis tre serate allo Houston Astrodome, con due spettacoli ciascuna. Quelle performances, che iniziarono appena quattro giorni dopo la conclusione del secondo periodo di due settimane all’International, resero Elvis esausto e depresso.
Elvis tornò a Memphis e si fece ricoverare all’ospedale Battista per tre giorni, durante i quali venne a sapere di avere un glaucoma all’occhio. Temendo di diventare cieco, cadde in una depressione ancora più profonda. Per gran parte di marzo e aprile passò il tempo per lo più a dormire, lasciando la camera da letto solo per brevi periodi, per giocare con Lisa Marie.
Durante le loro conversazioni telefoniche, il Colonnello lo esortava a tornare in studio per registrare del nuovo materiale. Aveva pubblicato due album dal vivo incisi durante i precedenti ingaggi a Las Vegas, ma la RCA, incoraggiata dal successo di "Suspicious Minds", era impaziente di avere nuovo materiale realizzato in studio.
Quell’estate, il cantante si recò di nuovo a Nashville per incidere i pezzi destinati a un nuovo disco intitolato "Love Letters from Elvis". Tornare all’American Recording Studio di Memphis gli suscitava sentimenti contrastanti. Moman era un supervisore severo ed Elvis non era sicuro che sarebbe stato in grado di fiorire in quell’ambiente in quel periodo della sua vita. Il Colonnello Parker aveva detto chiaro e tondo che era contrario a qualsiasi futura collaborazione di Elvis con Moman.
Quando Elvis tornò a Las Vegas, in agosto, per la seconda parte di impegni dell’anno, si rese conto che non sarebbe diventato cieco e fu alquanto più rilassato. Sfortunatamente, la tregua dalle sue afflizioni emotive fu breve. Circa una settimana prima della conclusione dell’ingaggio, nel primo pomeriggio, il Colonnello Parker ricevette una telefonata al suo ufficio presso l’International. La persona all’altro capo della linea disse che quel weekend Elvis sarebbe stato rapito. Il Colonnello non denunciò la telefonata alla polizia; chiamò invece Gregory Hookstratten, il suo avvocato a Los Angeles. Il giorno dopo, di mattina presto, la moglie di una delle guardie del corpo di Elvis ricevette una telefonata a casa sua, a Los Angeles, da un uomo che disse di voler parlare con suo marito. Disse che la notte seguente Elvis sarebbe stato «ammazzato». Quarantacinque minuti dopo, l’uomo, che parlava con l’accento del Sud, telefonò di nuovo dicendo che il killer aveva una pistola con il silenziatore, definendolo «pazzo». Per cinquantamila dollari in banconote di piccolo taglio, disse, avrebbe rivelato l’identità dell’assassino. Anche questa telefonata fu riferita all’avvocato del Colonnello Parker, che la notificò all’FBI.
Il Bureau inviò a Las Vegas degli agenti e ordinò di proteggere ventiquattr’ore su ventiquattro Priscilla e Lisa Marie, che all’epoca aveva tre anni, presso la dimora dei Presley a Los Angeles. A Elvis fu ordinato di rimanere nella sua stanza salvo durante il concerto.
Quella sera Elvis si esibì come da programma, tranne che per un’imponente forza di sicurezza composta da agenti dell’FBI, addetti alla sicurezza dell’albergo e l’esercito privato di Elvis composto dai ragazzi di Memphis, ben armati. Su richiesta di Hookstratten, John O’Grady, un detective del dipartimento di polizia di Los Angeles con il quale in un’epoca più tranquilla Elvis aveva stretto amicizia, volò a Las Vegas per fargli da principale guardia del corpo. Dell’uomo che aveva telefonato non si seppe più nulla.
Il resto dell’ingaggio all’International si svolse senza incidenti, ma Elvis uscì scosso dall’episodio.
Elvis non aveva nuovi film in programma e si divideva tra dischi e apparizioni pubbliche. Avendo del tempo a disposizione, iniziò a fissarsi sul Colonnello Parker e tutti i guai che il vecchio gli aveva attirato addosso. A Las Vegas aveva appreso che si era sbagliato pensando che le dimissioni di Abe Fortas fossero presagio di fortune a venire. Era ancora vincolato a Las Vegas quanto prima. L’unica differenza era che adesso avrebbe lavorato forse per appena cinquantamila dollari l’anno.
Con l’avvicinarsi delle vacanze, Elvis perse ripetutamente le staffe. Nessuno sopportava di stargli intorno. La sua relazione con Priscilla stava cadendo a pezzi. Lui non apprezzava né se stesso né nessun altro.
Meno di una settimana prima del Natale del 1970, Priscilla entrò in salotto, a Graceland, e sorprese Elvis e Vernon impegnati in un’accesa discussione sul Colonnello Parker.
«Porca puttana, papà, chiamalo e digli che ne abbiamo abbastanza» disse Elvis, secondo quanto scrisse Priscilla nella sua autobiografia. «Straccia quel maledetto contratto e io gli pagherò qualsiasi percentuale gli dobbiamo.»
Vernon gli chiese se fosse sicuro di volerlo fare.
«Certo che sì, cazzo» rispose Elvis.
Furioso, Elvis lasciò Graceland. Senza dire a Priscilla o a Vernon dove stesse andando, guidò fino all’aeroporto di Memphis e, usando il nome Jon Burrows, comprò un biglietto aereo per Washington D.C. All’arrivo si sentiva malato e forse un po’ spaventato, perché era la prima volta che viaggiava da solo, e senza mai lasciare l’aeroporto di Washington comprò un biglietto per Los Angeles.
Durante uno scalo a Dallas, telefonò a Jerry Schilling, un amico che aveva lavorato per lui a Memphis e si era poi trasferito in California per costruirsi una carriera come manager. Gli disse che aveva bisogno del suo aiuto per organizzare un incontro con il presidente Nixon. Schilling era impegnato con un progetto cinematografico, ma era difficile rispondere di no a Elvis e dopo che l’artista ebbe riposato per un paio di giorni partirono insieme per Washington.
Sull’aereo, insieme a loro, c’era il senatore della California George Murphy. Durante il lungo viaggio senza scalo, Elvis finì a parlare con lui e gli disse che si stava recando nella capitale per incontrare il presidente con la speranza di ottenere delle credenziali come agente federale. Disse a Murphy, un repubblicano, che l’abuso di droghe diffuso nell’industria dello spettacolo lo turbava e voleva intervenire in qualche modo.
«Ha un appuntamento?» chiese Murphy.
«No, signore» rispose Elvis.
Murphy gli suggerì di scrivere una lettera al presidente, dicendo che gliel’avrebbe consegnata lui stesso. Incoraggiato dall’interesse del senatore, Elvis scrisse una lettera di cinque pagine indirizzata a Nixon, nella quale spiegava chi era e diceva che desiderava incontrarlo per discutere «dei problemi che la nostra nazione si trova ad affrontare». Disse che voleva offrire volontariamente i propri servigi al presidente.
«Non desidero ricevere un titolo o un incarico fisso» scrisse. «Potrei fare maggiormente del bene, e lo farò, se fossi nominato genericamente agente federale.»
Prima della partenza da Los Angeles, Schilling aveva telefonato a Graceland e aveva informato Vernon e Priscilla dei progetti di Elvis. I due furono d’accordo che avesse bisogno di rinforzi. A incontrarli a Washington fu mandato Sonny West, insieme ad altre cinque guardie del corpo e all’amico di lunga data di Elvis Bill Morris, ex sceriffo della contea di Shelby.
Elvis ottenne l’incontro desiderato con il presidente. Entrando nella Casa Bianca, disse alle guardie dei Servizi segreti che portava in regalo a Nixon una "Colt 45" commemorativa. Gli fu concesso di raggiungere senza problemi lo studio ovale con un’arma. Il presidente posò per farsi fotografare insieme a Elvis e, dopo aver parlato con lui per un po’, accettò di fargli avere un distintivo dall’ufficio del Bureau of Narcotics and Dangerous Drugs (l’agenzia governativa che si occupa di narcotici e sostanze pericolose).
Elvis era euforico. Alla fine dell’incontro, scandalizzò il presidente, che non aveva fama di persona affettuosa, salutandolo con un abbraccio improvviso. Poi lo guardò negli occhi e scoppiò in lacrime.
Incoraggiato dal benvenuto ricevuto alla Casa Bianca, Elvis chiese a Bill Morris di organizzare un incontro simile con il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover. Dall’albergo, Morris telefonò all’ufficio del direttore, spiegandogli il motivo per cui chiedeva un incontro e dicendo di essere l’ex sceriffo della contea di Shelby a Memphis.
Uno degli assistenti di Hoover lo informò della richiesta con un biglietto e ricordò al direttore che in merito all’insolita istanza dell’artista aveva già telefonato anche il senatore Murphy. Dopo avere riesaminato il fascicolo su Elvis, l’assistente disse: «Malgradola sincerità e le buone intenzioni, senza dubbio Presley non è il tipo di individuo che il direttore vorrebbe incontrare. Al momento è noto che porta i capelli lunghi fino alle spalle e si permette di indossare ogni tipo di abiti insoliti».
L’assistente suggerì invece di organizzare una visita all’edificio per Elvis e il suo entourage, avvertendoli che un incontro con il direttore non sarebbe semplicemente stato possibile.
Elvis tornò a Memphis con quello che voleva: foto pubblicitarie insieme al presidente Nixon, l’attenzione della stampa a livello nazionale in merito all’incontro e, cosa più importante di tutte, credenziali che lo identificavano come agente federale. Negli anni, si è cominciato a considerare quel viaggio una fonte di imbarazzo per la reputazione dell’artista come Re del rock’n’roll. La colpa è stata attribuita a motivi di ogni tipo, dall’abuso di droghe alla presunta avversione verso i Beatles. Ovviamente, interpretazioni del genere sono ingiuste e infondate. L’uso che faceva Elvis di stimolanti e tranquillanti era drasticamente aumentato, in anni recenti, ma incolpare del viaggio sostanze che ne alteravano l’umore è un’esagerazione. Né rappresentano una spiegazione credibile i resoconti che parlano della presunta ostilità nutrita da Elvis nei confronti dei Beatles.
Elvis si sentiva tradito dal Colonnello Parker, che aveva prosciugato metà dei suoi introiti. Era di questo che lui e Vernon stavano discutendo quando Priscilla era entrata nella stanza. Elvis voleva pagare per liberarsi del Colonnello e farlo sparire dalla sua vita. L’idea di scontrarsi con il vecchio spaventava a morte Vernon. Quando quel giorno Elvis lasciò Graceland furioso e se ne andò dritto all’aeroporto, a quanto pare non aveva altro in mente che raggiungere l’unica persona di cui sentiva di potersi fidare: il presidente degli Stati Uniti. Nixon si era opposto alla mafia di Las Vegas e aveva rovinato Abe Fortas. Per come la vedeva lui, il presidente era il solo ad avere il potere di liberarlo dal groviglio in cui ora si trovava invischiato. Mentre il volo di un’ora e mezza da Memphis e Washington si trasformava in un viaggio di diversi giorni, Elvis ebbe il tempo di riflettere sulla faccenda. Non voleva realmente ritrovarsi coinvolto in un’indagine federale, né voleva sul serio mettere nei guai il Colonnello Parker. Quello che desiderava ottenere dall’incontro con Nixon era essere collegato a lui pubblicamente, nonché il distintivo. Magari tutto ciò sarebbe bastato a proteggerlo dai lupi che ululavano alla sua porta.
La gita a Washington rivela che Elvis stava combattendo per sopravvivere. Le recenti minacce di morte e rendersi conto di essere diventato uno schiavo a contratto lo avevano messo sotto stress. Ingollava stimolanti e calmanti, ma non era il pazzoide drogato che è stato descritto. Salire su un aereo, volare a Washington e chiedere di incontrare il presidente e il direttore dell’FBI non vuol dire essere matti: non se si ha come manager il Colonnello Tom Parker.
Mentre Elvis si preparava all’ingaggio di gennaio 1971 presso l’International, il Colonnello Parker era impegnato a organizzare progetti per tenere occupato il suo cliente. Il suo rapporto con Elvis traballava e sentire il cantante parlare con i giornalisti di una tournée di concerti oltreoceano lo turbava.
In quel periodo, Parker ed Elvis comunicarono poco. Non avrebbero potuto avere caratteri più diversi – e i loro personali sistemi di valori erano agli antipodi – ma la loro reazione a quella che stava diventando una situazione insopportabilmente stressante per entrambi fu simile: Elvis si ritirò ancora di più nel mondo in continua espansione delle sue prescrizioni mediche, nutrendo la dipendenza recentemente acquisita con un infido misto di stimolanti e calmanti; il Colonnello Parker si ritirò nell’isolamento di velluto blu del casinò, dove si smarrì alla luce fluorescente del mondo fantastico di Colpo Grosso, alimentando una dipendenza che gli costava quasi ventimila dollari alla settimana. In quel momento delle loro vite, le dipendenze autodistruttive erano forse l’unica cosa che i due avevano in comune.
Mentre si trovava a Las Vegas, il comportamento di Elvis divenne sempre più imprevedibile, e la sua dipendenza dalle droghe si fece evidente a tutti coloro che lo circondavano, compreso il Colonnello, che non alzò mai un dito per porvi fine. Vedeva l’uso di droghe da parte di Elvis esattamente come i proprietari degli strip club consideravano l’uso di droghe da parte delle ballerine: non gliele fornivano, perché sarebbe stato illegale, ma nemmeno le facevano smettere. Un Elvis sotto farmaci faceva bene agli affari; lo teneva lontano dai guai.
Completati i cinquantasette spettacoli all’International, Elvis si ritrovò esausto per lo stress fisico di doversi esibile due volte al giorno e demoralizzato per il deterioramento del suo matrimonio; il Colonnello tuttavia lo spinse a registrare altre canzoni per la RCA e dopo una sola settimana di riposo a Graceland il cantante si recò a Nashville a lavorare sul materiale per un nuovo album.
Elvis trascorse in studio la maggior parte della primavera e dell’estate. Il Colonnello Parker rimase a Las Vegas, dove lavorò nella suite di tre stanze che gli era stata data al quarto piano dell’International. Poi tornò in Nevada a luglio, per un’altra serie di esibizioni, solo che questa volta furono all’Hotel Sahara Tahoe di Stateline. Elvis tenne ventotto concerti, fermandosi spesso, durante le esibizioni, per leggere ad alta voce passi dalle Bibbie che il pubblico gli porgeva.
Appena concluso l’ingaggio al Sahara Tahoe fu ora di ritornare all’International per altri cinquantasette spettacoli consecutivi, solo che l’albergo non si chiamava più così: adesso era il Las Vegas Hilton, essendo stato acquistato da Barron Hilton del prestigioso gruppo di hotel omonimi. All’inizio, Barron Hilton si adirò nell’apprendere che il Colonnello Parker si era trasferito nell’albergo e aveva ricevuto spazio gratuito per l’ufficio, alloggio e servizio in camera. Elvis suonava nell’hotel solo per otto settimane all’anno. Perché il suo manager avrebbe dovuto essere accudito in maniera così prodiga tanto a lungo? Quando gli venne spiegato che Parker non era solo un eccentrico agente di artisti ma anche uno dei migliori clienti del casinò, per qualcosa come un milione di dollari all’anno, Hilton fece rapidamente i conti: l’hotel stava pagando Elvis un milione di dollari l’anno per esibirsi e il Colonnello Parker stava perdendo altrettanto ai tavoli da gioco. Così cambiò idea su Parker e gli stese il tappeto rosso. Se voleva, poteva avere addirittura l’intero quarto piano.
A novembre, il Colonnello Parker aveva fissato una serie di spettacoli unici nei centri civici e negli auditorium da Minneapolis in Minnesota a Tuscaloosa in Alabama. Elvis si esibì con il tutto esaurito e la maggior parte dei critici pubblicò recensioni estatiche.
La rivista «Rolling Stone» scrisse: «La magnificenza della performance di Elvis sta nel fatto di presentarlo come Re… È il solo e unico artista che possa godere di una cosa simile, e noi con lui».
Per la prima volta da anni, nell’ambiente c’era fermento intorno a Elvis. Tra le persone attirate dai profitti economici della risollevata carriera dell’artista c’era Paul Lichter, un giovane imprenditore che aveva conosciuto Elvis e il Colonnello dietro le quinte dello speciale televisivo del ritorno, nel 1968. Lichter era rimasto in contatto con Elvis e il Colonnello, a cominciare dalla serata di apertura dell’artista a Las Vegas nel 1969, quando un amico della RCA Records gli aveva chiesto di consegnare al cantante diversi dischi d’oro. Era una trovata pubblicitaria, ne era consapevole, ma avrebbe fatto girare la sua fotografia nell’ambiente e gli avrebbe fornito un’altra scusa per parlare con Elvis e il Colonnello.
Arrivato all’albergo, il Colonnello Parker gli disse di andare nella sua stanza e aspettare lì la sua telefonata.
«Eccomi per la prima volta a Las Vegas, e piuttosto emozionato di esserci… passai il primo giorno e mezzo nella mia stanza» ha raccontato. «Mi disse che se non avessi risposto alla sua telefonata avremmo chiuso.»
Lichter temeva che avrebbe perso la chiamata se avesse lasciato la stanza. Ordinò il servizio in camera e mentre il casinò ai piani di sotto vibrava di attività e le perfide malie di Las Vegas procedevano a tutta velocità senza di lui, Lichter guardava la televisione seduto vicino al telefono, in attesa che squillasse. Quando finalmente giunse la telefonata, corse di sotto e fu scortato, superendo due guardie armate, in una stanza dove Elvis e il Colonnello stavano tenendo banco con una torma di giornalisti e fotografi. Consegnò i dischi d’oro a Elvis e rimase lì in piedi per due minuti, stringendo mani nel divampare delle luci stroboscopiche, poi fu scortato fuori dalla stanza. Era finito tutto con la stessa rapidità con cui era iniziato.
Più tardi, Elvis lo invitò nella sua suite. Durante la presentazione, Elvis gli aveva chiesto di dov’era e quando lui aveva risposto Philadelphia, al cantante aveva ricordato qualcosa. Voleva una Cadillac station wagon come quella che aveva acquistato Dean Martin e aveva sentito dire che l’unico posto in cui le si poteva trovare era Philadelphia. Pensava che Lichter potesse aiutarlo a comprare l’automobile.
Dopo quell’incontro iniziale – Elvis lo invitò a rimanere all’hotel per un mese, con tutte le spese pagate – Lichter decise di lasciare le imprese di management e tuffarsi nell’impresa Elvis Presley.
Quando il cantante ricominciò ad andare in tour, Lichter si mise in viaggio a sua volta, vendendo per venticinque dollari l’iscrizione al suo nuovo "Elvis Presley Unique Record Club". Per avere fotografie destinate agli iscritti al club e a una rivista bimensile, il «Memphis Flash», assunse una squadra di fotografi che seguisse Elvis in tournée. Gli scattavano foto mentre andava e veniva da luoghi pubblici e Lichter le usava per le sue pubblicazioni.
Il Colonnello Parker non vedeva di buon occhio gli sforzi di Lichter e chiese al suo avvocato di inviargli lettere di minaccia, che il destinatario ignorò. Aveva ogni diritto di scattare foto a Elvis in luoghi pubblici e sapeva che il Colonnello non poteva fare nulla per impedirglielo.
Un giorno, mentre Lichter si stava rilassando nella piscina dell’Hilton, Tom Diskin, che aveva già incontrato in precedenti occasioni, andò da lui e gli disse che il Colonnello voleva parlargli.
«Il suo ufficio era l’intero quarto piano dell’albergo, una cosa che intimidiva di per se stessa» ha raccontato Lichter. «Quando mi recai all’incontro, disse “Tu mi piaci, e mi ricordi me stesso. Non posso impedirti di iniziare, ma posso impedirti di finire”. Lo ringraziai, ma compresi che non stavo facendo nulla di male, così andai avanti.»
Al Dvorin, che aveva fatto la storia del rock’n’roll di quel periodo quando aveva iniziato a scandire i concerti di Elvis con la memorabile frase «Signore e signori, Elvis ha lasciato l’edificio», osservava con spasso le battaglie promozionali tra Lichter e Parker.
«Lichter divertiva il Colonnello» ha riportato. «Un giorno mi disse “Se non lavorassi all’interno, sarei il primo a darmi da fare dall’esterno”.»
Il Colonnello Parker considerava gli imprenditori come Lichter dei contrabbandieri, anche se tecnicamente non lo erano. Scattavano foto in luoghi pubblici e le vendevano alle riviste o in libretti fuori dai locali dove Elvis suonava, sul suolo pubblico. Era tutto completamente legale, ma al Colonnello non piaceva l’idea che altri guadagnassero grazie alla popolarità del suo cliente, soprattutto se lui non riceveva una fetta dei profitti. La prima reazione del Colonnello Parker era far spedire ai contrabbandieri lettere di minaccia dal suo avvocato. A volte funzionava. A volte no.
Con l’espandersi del problema durante i primi anni Settanta, Parker scelse una posizione più difensiva, facendo in modo che prima di ogni esibizione degli annunciatori informassero il pubblico che nel corso dell’evento non sarebbero state permesse fotografie o registrazioni professionali. In seguito, tali restrizioni furono stampate sui biglietti stessi.
La battaglia raggiunse il culmine nel 1975 all’Omni Theater. Come al solito, Lichter aveva piazzato all’esterno i suoi uomini, a distribuire volantini della sua merce su Elvis Presley. All’insaputa di Lichter, Parker aveva assoldato un gruppo di motociclisti come guardie di sicurezza al concerto. I venditori furono strattonati e i volantini gettati per strada. Poi la faccenda si fece brutta: qualcuno sparò.
«Volavano pallottole, bum, bum, bum» racconta Lichter. «Non sto dicendo che fu il Colonnello il responsabile, ma quei motociclisti pazzi che aveva assunto sì, senza dubbio. Perciò la piantammo. I soldi sono soldi, ma i proiettili sono proiettili.»
Nel corso della sua battaglia con il Colonnello, Lichter rimase amico di Elvis e spesso incontrò Parker dietro le quinte o in camerino.
«Non mostrò mai reazioni al fatto che mi stava spedendo quelle lettere» ha spiegato Lichter. «Anni dopo mi disse che non era mai stato lui. Sostenne che fosse stato Vernon.»
Alla considerazione, Lichter si è fatto una risata: «No, era sempre stato il Colonnello, fin dall’inizio».
Dopo la morte di Parker, la sua vedova, Loanne, chiese a Lichter se volesse il fascicolo che il Colonnello aveva preparato su di lui. A quanto risultò, aveva conservato un dossier dettagliato con ritagli di giornali e altre informazioni. Lichter ne rimase impressionato.
All’inizio del 1972 divenne evidente che Elvis stava crollando. Quando il cantante scoprì che da tre anni Priscilla aveva una relazione con Mike Stone, l’istruttore di karate, lei si trasferì a Los Angeles con Lisa Marie. Elvis ebbe una reazione violenta e minacciò di uccidere Stone. Le sue abbuffate emotive furono talmente intense da spaventare perfino le sue agguerrite guardie del corpo. Le sue esibizioni dal vivo vennero criticate per le sue crisi di nervi e le sue lunghe prediche sconclusionate.
Elvis disse al Colonnello Parker di rivolgersi agli avvocati perché inoltrassero la richiesta di divorzio. Sia per Elvis sia per il Colonnello Parker, la vita divenne un completo incubo, con l’artista che si curava con tranquillanti come Quaalude e Percodan e passava lunghi intervalli di tempo senza mangiare. La reazione del Colonnello fu accelerare le registrazioni e il programma della tournée. Era l’ultima cosa di cui aveva bisogno Elvis, ma, per essere corretti nei confronti di Parker, il manager potrebbe avere pensato che mantenere il cantante sotto gli occhi dei fans avrebbe fatto bene al suo equilibrio emotivo.
Nel giro di un mese dalla conclusione dei cinquantasette spettacoli che fecero il tutto esaurito al Las Vegas Hilton, Elvis fu di nuovo on the road. Da aprile fino al primo agosto, quando tornò all’albergo per sessantatré concerti, si esibì quasi costantemente, suonando a Buffalo, Detroit, Dayton, in Virginia, a Indianapolis, in Carolina del Nord, Georgia, Florida, Arkansas, Texas, New Mexico, nello stato di New York, a Milwaukee, a Chicago e nel Kansas.
Ad aprile, quando Elvis aveva cominciato il tour, Barron Hilton si era recato dal Colonnello Parker con un’offerta che non poteva rifiutare. L’hotel gli avrebbe pagato cinquantamila dollari per tre anni per avvalersi dei suoi servizi di «consulente artistico e pubblicitario». In cambio di questo nuovo titolo di consulente, di cui Elvis pare non sia mai venuto a conoscenza – certamente non lo autorizzò mai, come aveva fatto per altri accordi stretti dal Colonnello – Parker accettò di mantenere il cantante sotto contratto con l’albergo per la medesima parcella da un milione di dollari l’anno. Per Elvis era un pessimo affare; altri artisti di Las Vegas guadagnavano molto di più.
In una lettera indirizzata al Colonnello Parker, che stabiliva i dettagli dell’accordo, Barron Hilton disse che apprezzava i suoi sforzi per conto dell’hotel.
«È nostra convinzione che gli sforzi da lei compiuti per pubblicizzare gli Hotel Hilton in tutta la nazione abbiano portato enormi benefici e vorremmo avvalerci dei suoi servigi per aiutarci a sponsorizzare i nostri alberghi in futuro» scrisse. «Siamo ansiosi di stabilire una collaborazione lunga e proficua per ambo le parti con una persona davvero eccezionale.»
Indipendentemente da come Parker e Hilton descrissero il loro piccolo accordo, rappresentava un evidente conflitto d’interessi che un manager facesse da consulente stipendiato a chi ingaggiava il suo cliente. Chiunque abbia dimestichezza con le pratiche commerciali di Las Vegas la definirebbe una bustarella. L’albergo aveva a disposizione Elvis a tariffa scontata e Parker tirava acqua al suo mulino guadagnandoci.
Tenendo banco dal suo ufficio al quarto piano dell’Hilton, il Colonnello rimase sorpreso quando un giorno Alex Shoofey, che era rimasto dopo che l’albergo era passato di mano, gli fece conoscere un promoter giapponese, il quale disse di voler organizzare un concerto nel suo Paese. A queste parole, il Colonnello si irrigidì e replicò che la mattina seguente avrebbe dovuto trovarsi due milioni di dollari sulla scrivania. L’uomo sorrise e gli disse che non c’era problema. Una volta constatato che sarebbe riuscito a ottenere i soldi, il Colonnello disse che non voleva recarsi in Giappone. Quello che voleva in realtà era girare un film. Che ne pensava di dare un milione di dollari a lui per mettere in piedi quel progetto? Il denaro sarebbe andato tutto a lui. Che ne pensava di questo? Ancora una volta, il giapponese acconsentì. Un milione di dollari andava bene. Davanti a un incredulo Shoofey, Parker disse all’orientale di scordarselo. Non era interessato a fare un bel niente fuori dai cari vecchi Stati Uniti. Alla fine, Shoofey accompagnò fuori dall’ufficio il perplesso gentiluomo giapponese.
Con l’avvicinarsi del 1973, il Colonnello Parker organizzò un’agenda fitta per Elvis, a partire da gennaio, con la trasmissione dal vivo via satellite di Elvis, "Aloha from Hawaii", che si stimò fosse vista da un miliardo e mezzo di persone. Gli era venuta l’idea di un concerto di novanta minuti alle Hawaii mentre stava guardando la visita del presidente Nixon in Cina, trasmessa via satellite. Osservando Nixon accolto dai suoi ospiti cinesi, di fronte al pubblico televisivo di tutto il mondo, gli si accese una lampadina e, da manager qual era sempre stato, pensò «Elvis… satellite… Hawaii».
Lo show fu un successo gigantesco e per la prima volta mostrò Elvis al pubblico di Giappone, Thailandia, Estremo Oriente, Cina e Australia. Solo nel Paese del Sol Levante, lo spettacolo catalizzò il novantotto per cento di share televisivo. Il giorno seguente, la registrazione del concerto fu rimandata in onda in ventotto nazioni europee.
Ancora una volta, il vecchio, scaltro Colonnello (ormai sessantatreenne) fece la storia, stavolta cogliendo l’enorme potenziale pubblicitario della nuova tecnologia. Se la rete internet fosse esistita allora, senza dubbio l’avrebbe utilizzata in modi nuovi e creativi per promuovere la carriera del cantante. Qualunque fossero i suoi difetti, di sicuro aveva talento per questo.
Nel giro di una settimana dal concerto alle Hawaii, il Colonnello mandò Elvis a Las Vegas a fare le prove per una serie di cinquantaquattro esibizioni al Las Vegas Hilton. Alla fine dell’ingaggio, Elvis chiese al Colonnello del tempo libero: era fisicamente ed emotivamente esaurito. Parker gli suggerì di andare a ricaricare le batterie a Memphis per quattro settimane.
Nel frattempo, organizzò un programma di concerti senza sosta, a partire da un’esibizione a Phoenix, in Arizona, in aprile, per continuare fino a giugno. Prima della fine dell’anno, Elvis si sarebbe esibito centosessantanove volte in venti città. Sarebbe stato un programma pesante per un giovanotto in buona salute, ma per il trentasettenne Elvis in quelle condizioni fisiche fu straziante e al limite dell’abuso da parte del manager.
Mentre Elvis era in tournée, il Colonnello Parker mise in atto una nuova trama. Il primo marzo 1973 firmò una misteriosa serie di accordi con la RCA Records, vendendo alla casa discografica le registrazioni originali di Elvis e i diritti su tutte le royalties derivate, in quello che viene solitamente definito «contratto di acquisizione». È un accordo che i manager siglano di solito per gli artisti che si stanno ritirando e non si aspettano di vivere abbastanza da godere dei proventi derivati dal piano delle royalties effettivo in quel momento. Oppure per chi non ha eredi a ricevere le royalties pagate dopo la sua morte. Era un modo per chiudere il capitolo Elvis Presley.
Gli accordi furono venti in tutto. Il primo impegnava Elvis a un nuovo contratto discografico di sette anni con la RCA Records. Il suo attuale contratto sarebbe durato ancora due anni, e il motivo per firmarne uno nuovo non si è mai capito del tutto. Il secondo accordo trasferiva i diritti delle registrazioni originali di Elvis e le sue royalties alla RCA Records per cinque milioni di dollari.
Il terzo accordo era tra la RCA, Elvis Presley e "All Star Shows", la compagnia che il Colonnello aveva fondato per sfruttare le possibilità di merchandising legate alla carriera del cantante. Secondo i termini di quel contratto, la RCA acconsentiva a pagare a Elvis e alla "All Star Shows" centomila dollari allo scadere del nuovo contratto discografico di sette anni.
Il quarto accordo era tra la RCA, la RCA Record Tours (la compagnia che aveva assunto la futura moglie di Parker, Loanne) e la "All Star Shows". Secondo i termini di quel contratto, la RCA accettava di utilizzare il Colonnello Parker «nella pianificazione, nella promozione e nel merchandising» dei tour concordati con Elvis Presley. Per quei servizi, la RCA avrebbe versato alla "All Star Shows" 675.000 dollari, con 75.000 pagabili il primo anno e 100.000 a ogni successivo anno. In più, la RCA Records Tour accettò di dare alla "All Star Shows" 675.000 dollari pagabili secondo lo stesso piano delineato dalla casa discografica.
Il quinto accordo, firmato dalla RCA, dalla "All Star Shows" e dal Colonnello, stabiliva che la prima avrebbe pagato alla seconda 50.000 dollari nel corso di cinque anni per i servigi di Parker.
Elvis firmò il contratto, ma non ne ricavò alcun vantaggio economico.
Il sesto accordo fu tra la "All Star Shows" e la RCA Record Tours e stabilì che la prima era vincolata a fornire i servigi del Colonnello Parker per assistere la seconda nella pianificazione e nella promozione dei concerti organizzati secondo l’accordo riguardante i tour. Per quelle prestazioni, la RCA Records accettò di versare alla "All Star Shows" 350.000 dollari, pagabili nel corso di sette anni, 50.000 dollari l’anno.
L’effetto complessivo dei sei accordi fu che Elvis Presley ricevette in totale 4.650.000 dollari e il Colonnello Parker 6.200.000, con un ulteriore 10% che gli sarebbe stato versato dagli utili netti dei concerti organizzati dalla RCA Records Tour.
All’epoca, Elvis rientrava in una fascia di reddito che pagava il 50% in tasse, il che significava che dall’acquisizione del lavoro di tutta la sua vita il cantante ricavò 2.325.000 dollari.
La posta in gioco era il catalogo delle oltre 700 canzoni da classifica di Elvis, che avrebbero fornito quasi certamente una rendita vitalizia.
Fu uno spudorato tradimento dei migliori interessi a lungo termine dell’artista. Elvis siglò alcuni dei documenti, ma nulla indica che comprese quello che stava firmando.
L’anno seguente, Parker strinse un altro strano accordo con la RCA. Secondo i termini di quel contratto, la RCA accettava di distribuire un disco intitolato "Having Fun on Stage with Elvis", inciso per l’etichetta di Parker, la "Boxcar Enterprises". Il contratto prevedeva un anticipo di 100.000 dollari, pagabili a Parker, e royalties di cinquanta centesimi ad album. A quanto pare, Elvis non ricevette nulla di
quell’anticipo. Con quegli accordi, il Colonnello Parker trattava il cantante come se fosse già morto e sepolto, e come se non avesse eredi che avrebbero potuto beneficiare della sua eredità.
Quando gli fu chiesto del contratto di acquisizione tra la RCA e il Colonnello Parker, Jean Aberbach, che lavorava per Freddie Beinstock alla "Hill and Range", disse allo scrittore Albert Goldman che la vita di Parker, a quel punto, era ormai controllata dalla sua dipendenza dal gioco d’azzardo. Aberbach, che aveva uno stretto rapporto d’affari con il Colonnello, dichiarò:
«Fu costretto a fare molte cose che altrimenti avrebbe potuto non fare. Fu costretto a muoversi in direzioni che non avrebbe percorso altrimenti».
Per quanto riguardava l’acquisizione, Aberbach disse che «di sicuro quadrava con il bisogno di trovare denaro, perché ci sono persone con le quali non è possibile rimanere in debito».
- fine prima parte -
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